• TEMPIO PAUSANIA. - A un'ora di macchina dall'Agnata, dove gli ospiti affollano la tenuta agrituristica di Tempio Pausania cara a Fabrizio De André, si apre una baia più bella e più tenera di quelle che ho visto nelle Isole Felici dei Mari del Sud. Sul pendio di quella baia il poeta ha acquistato la casa di un'amica e lì si riposa con la moglie Dori dalla fatica delle tournée. La mattina esce tardi dalla sua camera dove legge, scrive, lavora; poi siede alla tavola patriarcale dove si alternano adolescenti ansiosi, figli di complicate parentele e parenti complicati, tutti raccolti con un po' di soggezione intorno al dolce menestrello della nostra giovinezza che ha osato denunciare morti innocenti tra i mortali "papaveri rossi" e conformismi crudeli accaniti contro il sorriso dell'amore.
    Si diverte agli scherzi dei ragazzi, ride con un amico che gli trucca i punti di una partita di scopa, risponde col telefonino di Dori agli impresari del suo prossimo concerto. Quando cala il sole va a nuotare o in pattino nell'acqua limpida come un cristallo, in un fondale basso con lunghi, lenti frangenti che accolgono ragazzi felici immersi nell'acqua fino alle spalle senza toccare il fondo, davanti a due isole, la Municca (che vuol dire scimmia) e la Municchedda (che vuol dire scimmietta).
    Parla volentieri della sua fazenda famosa di Tempio Pausania, che in realtà si chiama l'Agnata, comperata una ventina d'anni fa quando era soltanto uno "stazzu", un appezzamento quasi abbandonato con un palazzotto tipico gallurese di blocchetti di granito fine Ottocento affondato in una foresta di querce sempreverdi, senza fondamenta costruito com'era sulle rocce, naturalmente con una sua leggenda di un enorme tesoro sepolto fra gli alberi cercato invano per decenni. L'appezzamento era nella vallata di Baldu: gliene aveva parlato Giovanni Mureddu, un autista di Tempio Pausania, e Fabrizio ne ha comperato 150 ettari, tre corpi di terreno con nomi che sembrano usciti dalle sue canzoni, Tanca Longa, Donna Maria, l'Agnata. Tanca Longa è un sughereto che ogni dieci anni produce il suo sughero in un piccolo pascolo irriguo, che si può innaffiare; Donna Maria è un pascolo asciutto, che non si può irrigare, si può usare solo a primavera e ha un suo rustico e un laghetto, resi maestosi da magnifiche rocce di granito di fronte al monte Limbara, il secondo monte sardo più alto dopo il Gennargentu.
    Fabrizio ha scelto l'Agnata per realizzare il suo sogno di bambino cominciato quando aveva cinque anni e la famiglia (la sua "grande" famiglia) lo aveva rifugiato dalla guerra nella tenuta della nonna a Revignano d'Asti e lì aveva imparato ad amare la terra e le piante e le erbe, fino a decidere che "da grande" avrebbe avuto una tenuta come quella tutta per sé.
    Così una ventina di anni fa è entrato a vivere con Dori nel palazzotto dell'Agnata, a lume di candela perché non c'era la luce, senza telefono, in un terreno abbandonato, completamente incolto, in un'asprezza da western americano, con una tenacia da pioniere sardo, e quando è riuscito a ristrutturare la stalla ha cominciato ad allevare i vitellini da carne, e poi maialini, e poi a seminare gli orti, e poi a produrre uova, e poi a coltivare ulivo e vite e tutto quello che poteva alimentare un ristorante agrituristico, e intanto ha alzato il solaio e ne ha ricavato una mansarda, e ha restaurato un'altra stalla diroccata attrezzandola come dispensa e cella frigorifera.
    Dopo tre anni il palazzotto è diventato quasi abitabile e Fabrizio caparbiamente è andato a viverci con Dori tra una tournée e l'altra. In un altro piccolo rudere ha sistemato una cucina e ne ha anche ricavato una camera per i custodi cuochi Agostino e Tonina. Così ha potuto fondare il ristorante subito diventato famoso.
    Fabrizio si divertiva a giocare con quella terra, e ha giocato anche col rio Caprineddu che attraversa la tenuta, lo ha sbarrato e ne ha ricavato un lago per l'irrigazione ma anche per accogliere una decina di trote trovate in una pozza d'acqua, che hanno attirato anatre e gallinelle d'acqua e uccelli acquatici.
    Ora sta costruendo con Dori sulla costa della collina un edificio di otto stanze e una piscina ricavata nella roccia, e un campo per le bocce, e un campo da tennis. Dice Dori: "Finiremo per cercare le palline da tennis nel bosco", e ride; ma c'è poco da ridere se si pensa che senza interventi pubblicitari, senza telefono, solo attraverso il tam tam degli ospiti la storia di questa fazenda è finita sul "Financial Times".
    Non ho capito se Fabrizio ha voglia di essere considerato un contadino, come faceva Faulkner quando aveva una campagna a una trentina di chilometri da Oxford, Mississippi, coltivata in realtà da un fratello e da quattro braccianti negri, che lo scrittore andava a trovare nella loro baracca di tronchi per ubriacarsi con loro e farsi raccontare storie di caccia o schiavitù. In realtà con Fabrizio si parla più di poesia che di agricoltura, nonostante le centinaia di volumi che ha studiato per far coltivare la sua terra, e non sempre i suoi ospiti illustri sanno la storia di quella Agnata che lo ha ammaliato; ma per lo più quando è in Sardegna i suoi ospiti sono legati alla storia sarda, come Salvatore Sechi di Tempio Pausania, alto funzionario di Stato molto vicino alla presidenza della Repubblica, per Fabrizio soprattutto musicista concentrato sullo studio del fagotto per ricreare con uno strumento "colto" il suono etnico pastorale delle "lanneddas", le zampogne sarde senza mantice. Per giocare a scopa si è scelto Alberto Santini, un amico che vive a Viterbo ma da una quindicina d'anni lo aiuta nei lavori dell'Agnata, con abbastanza fanatismo da costruire a Soriano nel Cimino, vicino a Viterbo, una villa sua chiamandola Agnatina. Le loro partite a scopa sono molto serie: guai a chi li disturba. Ma se Fabrizio sì allontana un momento Alberto gli trucca l'elenco dei punti e quando ritorna e non se se accorge ridono tutti come ragazzi.
    Si ride davvero, non soltanto come ragazzi, quando arriva Beppe Grillo, amico d'infanzia e di famiglia, caro a Fabrizio come un fratello. Con lui è come se uscisse dallo spesso involucro di autodifesa che si è costruito addosso per schivare difficoltà fastidiose create dall'invadenza dei curiosi: i suoi problemi somigliano a quelli di Beppe e fra loro si capiscono anche soltanto con uno sguardo.
    Ma a volte, quando il rosso mandala del sole cala nel mare, e nel crepuscolo dorato il miracolo della baia si prepara alla notte, Fabrizio cede ai suoi fan e parla della sua voce incantatora, di quel timbro ricco di armonici, dice: "Se faccio un do, lo faccio con la terza e la sua quinta, e questo è un dono naturale"; ma, dice: "Da giovane non ero intonatissimo e solo col tempo e l'educazione sono riuscito a intornarmi. Quando dicono che ho creato la mia voce non posso negarlo".
    L'ha educata cantando, quella voce maliarda, con l'aiuto di Alexandro Jiraldo, un maestro di chitarra colombiano che gli aveva trovato la madre dopo il disastro delle lezioni di violino, quando Fabrizio invece di suonare il violino mangiava i famosi "cavolini alla panna genovesi e pagava il maestro perché suonasse al suo posto": un trucco durato fino a che la mamma, sentendo suonare il difficilissimo Trillo del diavolo di Tartini si era insospettita, aveva spalancato la porta dello studio e aveva scoperto il tranello.
    Con Alexandro Jiraldo con c'erano più stati tranelli. Fabrizio aveva quattordici anni e il maestro gli faceva cantare canzoni sudamericane, senza dirgli niente di didattico: da sé il giovane allievo, che sapeva cos'era l'intonazione ma non sapeva ancora usare la voce, ha imparato a dominarla, o se si vuole a domarla.
    Il punto di partenza di Fabrizio è dunque sudamericano: l'influenza francese è venuta dopo, quando il padre gli ha portato i dischi di Brassens. Brassens a quattordici anni è diventato un suo maestro di vita, che confermava scelte già maturate: era anarchico, viveva su un barcone della Senna; ma non ha mai voluto incontrarlo per paura di restarne deluso.
    Così, quattordicenne, aveva cominciato a cantare le canzoni di Brassens, ma anche quelle di Aznavour, di Gilbert Bécaud, di Moulodji: solo a diciotto ne ha cantato una sua. Cantava tutte le sere in un locale in piazza De Ferrari e gli davano settantamila lire la settimana, il quadruplo di quello che prendeva un operaio. Già da adolescente era turbato dai problemi sociali suggeriti da Brassens, ma anche da quelli morali che contrastavano con quelli sociali. Ancora otto anni e Fabrizio, poco più che un ragazzo, avrebbe affrontato quello che sarebbe rimasto il suo problema fondamentale, la morale come complesso di leggi istituito dalla classe al potere: già allora ha fatto una critica dei dieci comandamenti della morale corrente contrari a qualsiasi senso sociale.
    Ancora adesso Fabrizio si accende quando spiega: "È comodo dire non rubare o non desiderare la donna d'altri quando si hanno soldi e concubine". I suoi interlocutori, a diciassette anni, erano i compagni genovesi della Federazione Anarchica Italiana di Carrara, senza nessuno che si comportasse da leader.
    Brassens è stato per lui la conferma delle sue idee anarchiche, ma anche un esempio musicale che gli ha dato aperture tecniche sull'uso della chitarra. Si è ritrovato a inventare tarantelle non prendendo spunto dalla musica napoletana ma dalle canzoni di Brassens, scoprendo solo più tardi, dieci anni fa, che lo stesso Brassens aveva avuto una nonna e la mamma napoletane: cioè, imitando Brassens, imitava un italiano.
    Quando, osservando la realtà, si è staccato da lui e dalla famiglia, ha inventato il suo stile: ha inventato De André. Forse senza rendersene conto ha inventato il cantore delle più belle, struggenti, sofisticate poesie - non soltanto canzoni - del nostro tempo. Ha inventato un De André che ha dovuto fare i conti con la sua anarchia poetica che precedeva il Comunismo e i movimenti operaio e sindacale: perché dal momento in cui negli anni Cinquanta aveva preso piede il marxismo, chi non faceva coincidere la Sinistra col marxismo era considerato di Destra alla maniera sovietica; mentre, dice Fabrizio, la differenza tra comunisti e anarchici era che i comunisti si basavano soltanto su Marx e gli anarchici si basavano su Bakunin e Stirner e la critica a Hegel.
    I comunisti, dice Fabrizio, non sapevano che la guerra civile spagnola era stata perduta dai Repubblicani perché nelle trincee gli anarchici (che costituivano il maggior numero di combattenti) si trovavano a combattere due guerre: quella fuori delle trincee contro i franchisti e quella dentro le trincee coi compagni delle Brigate Internazionali che seguivano Stalin: questo, commenta Fabrizio, un anno e mezzo prima che Stalin, chissà perché, firmasse attraverso Molotov e Ribbentrop il patto di non aggressione con la Germania.
    Così nei primi mesi del 1936 le armi sovietiche avevano smesso di arrivare al fronte, il che voleva dire che Stalin malgrado tutti i suoi proclami, aveva maggior convenienza a veder instaurato in Spagna l'ordine di Francisco Franco. Le torve, orribili immagini della guerra, le perverse, funeste immagini della politica avevano invaso la dolce baia col sole ormai tramontato. I papaveri rossi della canzone di Piero erano ingigantiti nella mia memoria e forse anche in quella di Fabrizio.
    Mentre si alzava per rispondere al richiamo della dolcissima Dori, ha detto: "Quando è morto Stalin nelle strade della Foce dove abitavo allora c'erano mazzi di fiori con la sua fotografia. È la prima volta che ho visto il lutto vestito di rosso".