• Era capace perfino di non esserci, di far iniziare Nuvole, il suo disco più struggente e prezioso dell'ultimo periodo, con le voci di due donne sarde, una più giovane, l'altra più anziana [sic!], che raccontano dolci e trasognate le nuvole che affollano il cielo: "Vanno, vengono, ogni tanto si fermano, sono nere come il corvo, sembra che ti guardino con malocchio. Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell'airone o della pecora...". A riascoltarlo oggi, sembra un epitaffio celeste, una magia della parola, un'emozione appesa all'incomprensibile e sfuggente senso del divenire di tutte le cose.
    Anche quando non c'era, De André spargeva lacrime di carisma, e lo aveva fatto per tutta la sua vita, ombrosa e riservata, come il primo vero intellettuale della nostra canzone, quello che ha traghettato verso la modernità le inquietudini dei cantautori genovesi, i primi a trattare di amore come lente esistenziale per capire il mondo. Era già molto, ma pochi anni dopo arrivò lui e improvvisamente si completò la rivoluzione in atto.
    Non più solo amori desolati e fragili, ma parabole, canti colti, citazioni medioevali, un provocatorio e costante intreccio tra sacro e profano, tra cultura alta e bassa, tra sublime e volgare, un po' come sono gli uomini del resto, di cui De André, sul piede della lezione dei francesi, si dimostrò acuto e implacabile osservatore.
    Le sue canzoni (al pari di quelle di Guccini che però aveva scelto la strada del folk americano) rivelarono che la canzone, perfino quella italiana, poteva permettersi ogni licenza artistica. Si poteva osare, si poteva affrontare qualsiasi tema, di più, si poteva brandire una canzone come arma anarchica e indipendente contro l'ipocrisia, contro la doppia faccia della società perbene e assassina.
    Se proprio dovessimo individuare il peso dell'influenza che De André ha avuto sugli altri cantautori, dovremmo pensare soprattutto alla capacità di svelare, di aprire, di non istigare imitazioni ma ispirare libertà, convincere che si poteva essere unici, che ogni musicista poteva essere un mondo a parte. Dunque quelli che più sono stati segnati da lui sono quelli che gli assomigliano meno. Che è la cosa più bella che possa capitare a un maestro. È successo a Dylan, è successo a Lennon.
    A De André è successo di essere divorato da una passione inarrestabile, di percepire come nessun altro il potere enorme della parola cantata, di temerlo e rispettarlo al punto di aspettare mesi, anni, finché non emergeva quella giusta, quella che avesse forza e significato, quella parola e non un'altra, fusa ad una nota che ne svelasse le risonanze, che ne amplificasse la vibrazione poetica.
    Si pensa soprattutto al poeta, ma ci si dimentica che De André era soprattutto la sua voce e che per quella erano pensate le canzoni, una voce nitida, ferma, profonda, scolpita come un bassorilievo che nei dischi e nei concerti riempiva l'aria con un'autorità che pochi hanno posseduto.
    La sua è la storia di un musicista che aveva capito un altro grande segreto: la trasformazione. Anche questa inseguendo in fondo la mimesi della vita stessa. Cercava, instancabilmente, nuove possibilità, le sperimentava a lungo, le meditava in lunghi viaggi in barca, le scarnificava per mesi coi suoi compagni di viaggio (Ivano Fossati, Mauro Pagani e tanti altri) finché non si arrivava in porto.
    Sta di fatto che il viaggio era un viaggio reale, non pretestuoso, e tra La canzone di Marinella e Creuza de mä c'è un abisso, c'è tutta la vertigine delle metamorfosi di un artista che può rimanere se stesso cambiando tutto. Dalle ballate-apologo degli inizi, in cui la parola aveva un peso preminente, fino al folk-rock più innovativo, a un vero e proprio manifesto di una possibile musica etnica italiana, dove l'uso del dialetto, spesso l'incomprensibile genovese, rendeva la parola soprattutto elemento sonoro, entità ritmica.
    Non era un poeta tout court, tutt'altro. Era un incantatore di suoni e parole, uno di quelli che possiedono il segreto, del resto antichissimo, di una lingua in cui versi e musica non possono essere separati, e la poesia è sempre anche suono.
    Del poeta (musicale) aveva l'ambizione, la volontà di plasmare emozioni che suonassero vere, spietatamente autentiche, esasperando la soggettività dell'atto creativo come unico possibile momento d'onesta espressione. Ed è il segno che ora ci mancherà di più.