Nel titolo stesso di Nuvole barocche vi è come la spia (ovviamente involontaria) dello stile ridondante e artificioso della canzone: senz'altro meno ingenua sul piano formale rispetto al brano del lato B (E fu la notte), ma altrettanto mediocre a livello estetico. Tanto che Cesare G. Romana, caro amico di Fabrizio, l'ha ironicamente definita "un fritto misto di Modugno, Bindi, cori femminili, archi e un sax ululante". *
In effetti, si tratta di un testo piuttosto melenso, che descrive goffamente – con esiti affatto stridenti rispetto agli intenti palesemente elevati – l'incertezza, l'indecisione, l'oscillazione tra una volontà di totale abbandono all'esperienza amorosa e l'ansia di fuga alla ricerca di nuovi e più prosaici, ma al tempo stesso vaghi ed imprecisati, orizzonti esistenziali, nella consapevolezza (o semplice percezione) che l'amore trasfigura in sogno la vita.
L'incipit:
Poi un'altra giornata di luce
poi un altro di questi tramonti
Trasferisce immediatamente, e mantiene, nel cuore della storia, senza narrarne la genesi e senza prefigurare eventuali sviluppi.
Qualcosa è accaduto, ma ora tutto è sospeso tra l'ansia di "partir", per una voglia di "realtà", e l'incapacità di attuare tale progetto:
Tu mi hai insegnato a vivere
insegnami a partir.
[...]
Tu mi hai insegnato il sogno
io voglio la realtà.
Ma, appunto, il cielo, striato di "nuvole barocche":
sussurra un altro invito
che dice devi amare.
Che dire di questo cielo personificato, e di tutto il resto?
Se proprio si intende riscattare qualcosa, occorre andare oltre il testo stesso, spingendosi arbitrariamente nell'inespressa intuizione che l'amore, pur arricchendola di felicità e di senso, condiziona e delimita la vita, precludendole altre ed ignote opportunità. Un po' come dire – parafrasando Rimbaud - che esso rende assente la vera vita. Ma mi rendo conto che questa intromissione è perlomeno opinabile, soprattutto agli occhi di due innamorati...

Sul piano retorico spicca l'uso di una figura raramente usata persino dai poeti, e che quindi evidenzia, accanto a una discreta conoscenza degli strumenti letterari da parte del giovanissimo De André, l'intento elevato del testo: si tratta dell'ipallage del v. 15 – "poi quegli occhi di verde dolcezza" –, dove appunto l'aggettivo "verde" si sposta sintatticamente dagli "occhi", a cui logicamente pertiene, alla "dolcezza" che essi trasmettono. Se si pensa alla celeberrima ipallage carducciana: "il divino del pian silenzio verde"**, potrà forse colpire l'uso dello stesso aggettivo nell'immagine usata da Fabrizio; ma si tratta evidentemente di una semplice casualità, e non di un comune sentire. Comunque sia, occorre riconoscere che questo è l'unico verso che si salvi di un testo altrimenti avvilente.
Si possono inoltre evidenziare la ripresa anaforica di un intero enunciato in chiusura di strofa, nonché singole anafore tra i vv. 1-2 e 14-15 ("poi"), e tra i versi 4 e 17 ("tu mi hai insegnato a vivere").

ASPETTI METRICI
Due strofe di diversa lunghezza (rispettivamente di 13 e 9 versi), ciascuna delle quali composta da tre decasillabi iniziali, seguiti in entrambi i casi da settenari, quasi tutti piani (sdrucciolo il v. 4, e tronchi i vv. 5 e 18).
In assenza di un preciso schema metrico, è possibile rilevare alcune affinità fonematiche in sede di rima. Ad esempio, "rosso" (v. 6) è in assonanza tonica con "soffio", "scirocco" e "sogno" (vv. 10, 11, 17); lo stesso accade tra "fontane" e "restare" (vv. 3, 13); "portali" (v. 3) è in consonanza con "cielo" e "sole" (vv. 6, 9); "carezze" (v. 14) rima imperfettamente con "dolcezza" (v. 15) ma è anche in assonanza tonica con "promesse" (v. 16).
Per quanto mi riguarda, sono convinto che si tratti di sonorità casuali, anche se occorre notare che le unità lessicali dell'ultimo gruppo ("carezze", "dolcezza", "promesse") appartengono a una stessa area semantica: quella del rapporto amoroso, che costituirà una delle tematiche essenziali di De André.

NOTE
* [C. G. Romana, Amico fragile, Sperling & Kupfer, Milano, 1999, p. 46]
** È il verso finale del celebre sonetto Il bove, in Rime nuove (1887).

[Giuseppe Cirigliano, Il "primo" De André, Emmelibri, Novara, 2004]