• A diciannove anni, dopo aver affrontato alcuni classici dell'anarchia, Fabrizio De André legge L'unico e la sua proprietà, pubblicato nel 1845 da Johann Kaspar Schmidt, meglio noto come Max Stirner, da cui sarà profondamente influenzato, fino a definirsi anarchico individualista.
    [L. Viva, Vita di Fabrizio De André, Feltrinelli, Milano 2000, p. 62]

    Ai Ventiquattromila baci e ai Da da um-pa che solleticavano la pruderie di un paese, e soprattutto di una classe politica bigotta e ladrona nello stesso tempo, De André, sin dai suoi esordi come autore, ha contrapposto il suo presepio sociale, laico e disincantato, abitato da prostitute, da suicidi, da ladri e da tutti coloro che, per costrizione o vocazione, si trovano a vivere ai margini del quieto modus vivendi dei benpensanti.
    Un mondo di vittime, colpevoliper lo sguardo scandalizzato della borghesia (se non altro colpevoli di svelare l'ipocrisia di chi li condanna).
    [R. Giuffrida / B. Bigoni, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, p. 24]

    Amava citare Malatesta, Stirner, Bakunin, Kropotkin, dei quali aveva letto tutto. Parlava a ruota libera della polemica tra comunisti autoritari e libertari, dello scontro Marx-Bakunin, delle persecuzioni dei bolscevichi in Russia dopo il 1917. Racconti che alternava alle storie di anarchici perfettamente sconosciuti come uno scrittore sardo o persone conosciute nelle trattorie di Genova. Da anarchico, per molti anni aveva rifiutato la scheda elettorale. (...) Citava tra i suoi scrittori "politici" preferiti Henry Thoureau, un classico del pensiero libertario: "Il miglior governo è quello che non governa affatto.
    [A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2000, pp. 30-31]

    C'era di sicuro, in lui, una visione romantica dell'anarchia, identificata a volte tout court con la marginalità, con i reietti di questo pianeta. Lontano dalle mode, profondo nella comprensione, con una densità culturale pari alla finezza del sentimento, De André ha contribuito a dar vita e dignità a persone, popoli, idee che grazie a lui - e ai collaboratori di grande spessore di cui ha saputo circondarsi - hanno potuto trovare nelle sue poesie in musica un avvocato difensore, un propagandista onesto, un vendicatore contro i torti della storia. Sardi, indiani d'America, tossici, puttane, poeti, anarchici, detenuti, sofferenti, ribelli, zingari: sono loro parte di quell'umanità soggiogata ma non doma, forte solo della propria dignità e coerenza, che attraversano a testa alta l'intera sua opera."
    [P. Finzi, in Signora libertà, signorina anarchia]

    Chissà se Fabrizio De André è consapevole delle numerose similitudini che accomunano l'intero suo agire culturale a quello di Pier Paolo Pasolini. (...)
    Vi sono in entrambi connotazioni ideologiche, etiche e sentimentali comuni nella rivendicazione di una radicale diversità che si esplicita in un'opposizione inesausta al mondo borghese e alla sua razionalità alienante e distruttiva.
    Non è certo un caso se i protagonisti delle loro opere provengono quasi sempre dallo stesso universo di ladri, assassini, puttane, diseredati, mentecatti, disperati. (...)
    Non è certo un caso, ancora, il fatto che quell'universo sia circondato e attraversato dalla volgarità di ricchezze ostentate e dall'ignoranza elevata a valore, nello spettacolo totalizzante del dominio capitalistico sulle cose e sugli uomini.
    [R. Giuffrida / B. Bigoni, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, pp. 63-64]

    Date le molte strumentalizzazioni che sono state fatte dopo la scomparsa del poeta, è bene specificare che De André si riconosce nel valore del messaggio cristiano e non certo in quelli religiosi.
    L'intera sua produzione poetico-musicale è destimoniata dal fatto che De André non riconosce alcuna valenza alla dimenzione divina del messaggio cristiano: Gesù è "figlio dell'uomo", non figlio di Dio, un figlio che, come il poeta ha amato dire in più di un'occasione, lui considerava "il primo rivoluzionario". E anche se a una lettura superficiale potrebbe risultare paradossale offermare che il messaggio sociale cristiano sottenda l'indignazione anarchica che anima la poesia di De André, l'analisi di alcuni elementi non può che confermare questa tesi. Il principale di essi è, in assoluto, il sentimento della pietas, della pietà per tutti gli uomini, i vinti, gli esclusi.
    Per dirla col poeta Yeats, "la pietà ineffabile che si nasconde nel cuore dell'amore"; oppure ancora, per dirla in questo caso con Blaise Pascal, quella che va a nutrire la poesia di De André, è una "pietà della tenerezza".
    È pietà per gli assassini di Delitto di paese, è pietà per chi "sulla croce sbiancò come un giglio","per chi non ha sorriso", per i drogati, per le prostitute, per i bambini che "dormono nelletto del Snad Creek", per il bandito sardo "senza luna e senza fortuna", per le "spose bambine" dei rom che vanno a "caritare" e, ancora una volta, sinteticamente, è pietà per chiunque viaggi "in direzione ostinata e contraria".
    [Romano Giuffrida, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), RCS Libri, Milano 2007, pp. 89-90]

    De André, come Pasolini, lo si può definire "inellettuale critico", ossia in crisi, la figura dell'intellettuale che si evidenzia soprattutto nella seconda mettàdell'Ottocento ma si afferma nella sua interezza nel Novecento e, in particolar modo, nella seconda metà del secolo.
    L'intellettuale critico è il figlio "degenere" della borghesia. Educato, coccolato, impegnato dalla borghesia fintanto che questa gli riconosce una qualche utilità sociale per il funzionamento dei meccanismi del sistema, l'intellettuale viene poi a trovarsi nella spiacevolissima condizione di reietto, di traditore, nel momento in cui, invece di contribuire all'affermazione della classe dominante, egli si presenti - o presenti il suo pensiero - come alternativa possibile a essa. Ed è per questo motivo che gran parte del ceto intellettuale, posta di fronte al rischio di perdere i propri privilegi connessi al ruolo, preferisce la condizione di aedo del potere.
    Quando invece la contraddizione si fa insanabile, ovverosia quando avverte la propria posizione come eccentrica rispetto al sistema, tanto da impedire qualsiasi forma di complicità con esso, ecco che l'intellettuale, come già sostenne Nietzche, vede impossibile il proprio lavoro se non nei termini di un permamente smantellamento critico di ogni dato acquisito, primo fra tutti proprio quel ruolo che la divisione borghese del lavoro gli vorrebbe affidare.
    [Romano Giuffrida, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), RCS Libri, Milano 2007, pp. 83-84]

    De André legge la storia dell'umanità come perenne scontro dialettico fra il Potere - con tutti i suoi rappresentanti - e la gente comune - che il potere deve subire. Uno scontro dialettico ben lontano dall'ottica marxista, non venendosi ad avere in lui nessuna sintesi (e d'altronde De André è ben più attratto da Bakunin e Stirner che non da Marx e Engels).
    [A. Podestà, Fabrizio De André. In direzione ostinata e contraria, Editrice Zona, Rapallo 2001, p. 8]

    Fabrizio aveva una speranza: che le nuove generazioni, più mature delle nostre, potessero vedere realizzata quell'assenza di Stato per la quale c'è sempre battuto. E aveva la speranza che le pulsioni economiche non condizionassero troppo i giovani: è facile cadere nell'errore di pensare che "la vita è solo di chi ha i soldi".
    [A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2000, 87]

    Fabrizio era anarchico, io cattolico. Farizio mi prendeva in giro perché mi accusava bonariamente di essere tante persone: a volte eretico, altre conservatore o rivoluzionario.
    [Massimo Bubola, in Massimo Cotto, Fabrizio De André raccontato da Massimo Bubola, Aliberti, Reggio Emilia 2006, p. 46]

    Fabrizio, per quel che si sapeva, o per quel che se ne diceva, era agnostico. Eppure ha saputo esprimere e creare motivi di singolare e profonda - seppur "laica" - spiritualità. Come ne La buona novella. O, in maniera struggente, in Preghiera in gennaio. Ha ragione, inoltre, chi ha fatto notare che sentiva, Fabrizio, fortemente ed evidentemente vicina la figura di Gesù, come profeta degli umili e degli "ultimi".
    [Severino Saccardi, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), RCS Libri, Milano 2007, p. 41]

    Fabrizio se n'è andato, eppure c'è ancora. Il suo insegnamento lo possiamo vedere nell'ispirazione che fa muovere i passi di tanti artisti più giovani. Non ha lasciato testamento, ma una grande eredità. (...) Voglio ricordarlo ed immaginarlo ancora così: il suo sorriso sornione e lo sguardo strano, chitarra in mano a succhiare il fumo della marlboro tra una strofa e l'altra, i suoi occhi così grandi pieni del mare di Sardegna, di Liguria, di Rimini. La sua testa viaggiava lontano, nelle orecchie l'eco di cento lingue. E ancora viaggia Fabrizio, lontano: soprattutto lontano dai comunicati stampa chilometrici di chi ruba in suo nome un altro minuto alla televisione e alla radio, sottraendolo a una sua canzone. Lontano dalla sfilata dei berluschifi e melandrone, dai bertinotti e dalle cossutte improvvisamente ed ufficialmente attristate davanti ai microfoni e alle telecamere, processione lugubre in segreta celebrazione del tumore che ha fatto tacere la voce di un poeta anarchicoche non ha mai avuto paura di chiamarli col loro vero nome. E di mandarli affanculo, loro, i potenti e i padroni: senza possibilità di scampo.
    [M. Pandin, in Signora libertà, signorina anarchia]

    Fabrizio vedeva nel popolo Rom un popolo fiero, libero, che non ha mai partecipato a una guerra ma che dalle guerre è sempre stato perseguitato e distrutto.
    [G. Bezzecchi, in Volammo davvero, BUR, Milano 2007, pp. 35]

    Fu tra i sedici e i diciassette anni che Fabrizio De André iniziò a documentarsi politicamente leggendo Bakunin. Aderì con tutto se stesso all'ideale anarchico che, evidentemente, garantiva alla sua inquietudine esistenziale il giusto orizzonte di libertà, l'affrancamento da ideologie, preconcetti, da tutto ciò che fosse sovrastruttura, falsità ipocrisia. In un certo senso si potrebbe dire che l'anarchia di De André si radica nelle sue insofferenze adolescenziali, al di qua delle letture e dalla compatibilità ideale con l'anarchia storica (...). Attraverso le letture De André capì che gli anarchici erano dei miserabili che aiutavano chi era più miserabile di loro. Ma scoprì anche che quei miserabili che vivevano ai margini della società, puttane, omosessuali, ladruncoli, ubriaconi sapevano essere più solidali e autentici di quelle piccole femmine agghindate che trovava nelle feste della Genova bene. Perché anarchico individualista? Perché anziché scegliere e cercare la gente con cui vivere certe idee, Fabrizio ha scelto di viversele da solo, cercando di farlo con una coerenza che passa anche attraverso le contraddizioni di un essere umano. Essere anarchici è una categoria dello spirito, della propria mente.
    [L. Viva, Vita di Fabrizio De André, Feltrinelli, Milano 2000, p. 62]

    I frammenti-canzone di De André trovano un principio unitario di discorso in una visione libertaria che è anche un punto di vista morale sul mondo.
    (...) Lo sguardo morale di De André in ogni caso non ha nulla a che spartire con la precettistica dei divieti e delle pene, ma esprime una modalità di profonda partecipazione. Alla scelta di forme medievali si contrppone infatti un esistenzialismo di fondo, un'attenzione aperta e una disposizione comprensiva verso i modi di essere dell'uomo nel mondo.
    Il punto in cui cultura medievale e filosofia del Novecento si incontrano, nella canzone di De André, è la frequentazione del tema della morte. La morte, heideggerianamente, è la possibilità più certa dell'uomo: in quanto proprium della vita, dovrebbe essere il principio che ridimensiona la insensata cura de' mortali [Par., XI, 1].
    [E. Alberione, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, pp. 96-97]

    Insistito e modulato secondo un vasto spettro di registri era il tema della morte: vero e proprio tabù per la mentalità della piccola borghesia arricchita (lo storico Philippe Ariès ha parlato di pornografia della morte ) nelle società occidentali avanzate). Suicidi, impiccati, annegati, ammazzati, spesso innamorati affollano le canzoni di Fabrizio De André [...]. Scandaloso oltre al tema era il modo di parlarne: una morte senza elaborazione del dolore, senza conforti religiosi e senza lutto, senza vertigini esistenzialistiche o decadentismi poetici (ma con qualche sotterraneo rimando a Cesare Pavese e forse anche a Umberto Saba e a Federico Garcìa Lorca), una morte ostentata e virile e anche talvolta rancorosa, scarna e contenta, luminosa, non notturna, quasi si direbbe ottimista, ridente e irridente [...]. La morte era pure, qualche volta, la morte in guerra, forse la più assurda umanamente, benché storicamente indistruttibile. Le canzoni di Fabrizio De André ponevano una questione allora molto sentita, specialmente a livello giovanile ma anche tra intellettuali come Bertrand Russelle o Jean Paul Sartre: pacifismo e critica del bellicismo, incitamento all'obiezione di coscienza e ironia amara sulla retorica dell'eroismo militare.
    [F. De Giorgi, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, pp. 71-72]

    L'orizzonte nel quale si inscrive l'opera intellettuale e poetica di Fabrizo - da Marinella a Don Raffaè, da Piero ai Khorakhané - è sicuramente, orgogliosamente quello dell'anarchismo: un anarchismo tanto più profondamente sentito quanto meno sbandierato.
    [Paolo Finzi, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini", RCS Libri, Milano 2007, p. 218. Intervento nell'àmbito delle Giornate di studio svoltesi a Garessio, il 14-15 luglio 2000]

    La cifra più vera della sua testimonianza è stata quella della critica radicale - drammatica e sarcastica, scanzonata e poetica - del potere e delle sue ipocrisie. Irriducibile a qualsiasi recupero "buonista", Fabrizio è stato per tutta la sua vita un intellettuale "contro", che ha remato - spesso in solitudine - in direzione ostinata e contraria. In una parola, un anarchico.
    [Paolo Finzi, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini", RCS Libri, Milano 2007, p. 218. Intervento nell'àmbito delle Giornate di studio svoltesi a Garessio, il 14-15 luglio 2000]

    La scelta di cantare i marginali [...] rappresenterà la cifra di De André per l'intera sua produzione.
    [R. Giuffrida / B. Bigoni, in Fabrizio De André. Accordi eretici, EuresisEdizioni, Milano 1997, pp. 24-25]

    La varia umanità cantata da De André è così vera, così reale, perché Fabrizio è stato lì, con quell'umanità, con la quale si è confrontato, scontrato, ha riso e sofferto, in ogni caso si è sempre messo in gioco in prima persona.
    [R. Giuffrida / B. Bigoni, in Signora libertà, signorina anarchia]

    Negli ultimi anni era diventato ancor più maestro di pensiero. Concedeva interviste solo per iscritto, per evitare di deragliare, per amor di sintesi, per non essere frainteso, e le meditava circondandosi di tutti i suoi libri-amuleti e dispensando piccole perle di saggezza e di cultura.
    [Guido Harari, in Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), RCS Libri, Milano 2007, p. 47]

    Per la sua proverbiale discrezione pochi hanno saputo del sostegno anche materiale che Fabrizio diede a giornali (alla rivista A e ancora a Re Nudo) oltre che ai movimenti anarchici. Erano invece pubbliche le sue dichiarazioni di adesione: "Non so se in questa città ci sia un gruppo anarchico", disse più volte dal palco durante alcuni concerti, "ma se ci fosse invito i suoi componenti a venirmi a trovare in camerino".
    [A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2000, 34]

    Sarebbe bene ricordare ai fautori, e non sono pochi, della pena di morte che, mentre una sentenza ingiusta è rivedibile e in qualche maniera si può revocarla con un provvedimento, invece la revoca della pena di morte di un uomo non può firmarla nessun uomo.
    [In Volammo davvero (a cura di Elena Valdini), RCS Libri, Milano 2007, p. 189]

    Un anarchico che alla fine del 1989 si trovò a "difendere" persino Marx quando qualcuno citava la caduta del Muro di Berlino e sosteneva che il comunismo era morto. "È un insulto storico e culturale", non si stancava di ripetere Fabrizio, "Marx è un filosofo e un economista. Dire che c'è stato il crollo del marxismo è un'idiozia totale tanto più che certe teorie, come il plusvalore, non sono state superate.
    [A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2000, 33]

    Un vero libertario da sempre convinto che la vita, fatta di sogni, passioni e slanci, non fosse poi così difficile da vivere, che sarebbe bastato non complicarla. Una convinzione che naturalmente si scontrava con il suo carattere. Con la gioia di vivere e il sentimento di morte che si portava dietro, Fabrizio finiva, infatti, per precludersi ogni felicità. Era ateo Fabrizio, ma non un'enorme spiritualità: vedeva un'anima in tutto quello che c'era sotto i suoi occhi, in tutto ciò che toccava.
    Come sosteneva Bacon, "l'ateismo è più sulle labbra che nel cuore dell'uomo". Sognava un mondo magari più arcaico in cui l'uomo fosse spogliato delle pulsioni economiche.
    [A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De André, Fratelli Frilli Editori, Genova 2000, 10]