• Introduce il mondo degli indiani, ed è la storia di un bambino che, diventato uomo, scegli il nome di Coda di lupo e fa il suo ingresso nel mondo dei grandi, prima rubando un cavallo, poi uccidendo uno smocking, forse per vendicare la morte del nonno crocefisso sulla chiesa nella notte della lunga stella con la coda. Da vecchio assiste all'arringa del generale (riferimento al sindacalista Luciano Lama, criticato per il suo moderatismo) agli universitari romani, ma si rifiuta di fumare con lui: "non era venuto in pace". Il brano annuncia la fine delle grandi contestazioni e delle rivendicazioni sindacali ed esorta a non credere mai al "Dio della Scala", a un "Dio a lieto fine", ma neanche a un "Dio fatti il culo".
    [Matteo Borsani - Luca Maciacchini, Anima salva, p. 112]


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    È lastoria di un ragazzo che corre con suo nonno dietro a una mandria di buoi. Qui inizia la prima contaminazione tra l'America e il nostro mondo contadino. Ruba un cavallo per diventare adulto ("rubai il primo cavallo e mi fecero uomo / cambiai il mio nome in Coda di Lupo"), perché l'abigeato era uno dei passaggi obbligati nella società pellerossa e non solo per essere accettati come adulti.
    Fabrizio, dopo il sequestro, avrebbe paragonato il suo rapimento al furto di cavalli: come nelle tribù pellerossa si rubano cavalli per diventare uomini, in certe tribù della Sardegna si rubano pecore o si rapiscono uomini.
    Questo processo lo si può riscontrare ancora nei clan malavitosi o in certe gang metropolitane, dove devi rapinare o ammazzare qualcuno o beffare un poliziotto: è la prova del coraggio. È l'iniziazione. (...) Dopo il mito, entra in scena l'attualità nera: il nonno del ragazzo viene trovato "crocifisso con forchette che si usano a cena / era sporco e pulito di sangue e di crema".
    Poi il ragazzo continua a contaminarsi con la nuova realtà, perché finisce tra i manifestanti davanti alla Scala ("e una notte di gala con un sasso a punta / uccisi uno smoking e glielo rubai / e al dio della Scala non credere mai") e poi attacca Luciano Lama, allora a capo dei sindacati, che si presentò a un confronto con gli studenti che fece scalpore perché fu molto contestato ("capelli corti generale ci parlò all'università / dei fratelli tute blu che seppellironole asce / ma non fumammo con lui, non era venuto in pace / e a un dio fatti il culo non credere mai").
    L'ultima strofa è pasoliniana ("e adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo / che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa") e segna il ritorno al mito, per quanto scalcinato, perché il ragazzo ormai vecchio viene "scolpito in lacrime sull'arco di raiano", come un barbaro sconfitto trascinato nel trionfo dell'imperatore. (...)
    Il rischio, in canzoni di questo tipo, è che le strofe legate all'attualità di certi anni invecchino precocemente
    [Massimo Bubola, in Massimo Cotto, Fabrizio De André raccontato da Massimo Bubola, Aliberti, Reggio Emilia 2006, pp. 43-45]


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    Un indiano degli anni Settanta che non fuma il calumet della pace con il leader sindacale all'università di Roma/Little-Big-Horn.
    [Doriano Fasoli, Fabrizio De André. Passaggi di tempo, Edizioni Associate, Roma, 1999, p. 211]