• L'eloquenza, come scrive Cicerone nel prologo della "Retorica", senza il sapere è dannosa, ma il sapere, che, anche quando non sia unito all'eloquenza, è, sia pur in piccola misura, di qualche giovamento, quando si accompagna all'eloquenza diventa sommamente giovevole: per questa ragione sbagliano coloro che, lasciato da parte ciò che giova senza nuocere, aderiscono a ciò che nuoce senza dare alcun vantaggio. Fare ciò equivale a sciogliere il vincolo coniugale di Mercurio e Filologia, voluto con grande sollecitudine da Virtù e da Apollo, ed approvato dal consesso degli dei.

    In queste parole, che Guglielmo di Conches scrive nel prologo del "De Philosophia Mundi", troviamo l'argomento principale, centro di tutta la speculazione teologica e filosofica, di spirito neoplatonico, e dell'indagine naturale che animano la fioritura dello studio carnotense; questo principio consiste nell'unione della sapienza, inerente la realtà naturale o divina, allo strumento privilegiato mediante il quale quello stesso sapere può essere espresso al sommo grado, l'eloquenza e l'allegoria, secondo le stesse parole di Quintiliano, che nel principio della "Istituzione" ricorda che "filosofia ed eloquenza furono unite dalla natura e legate anche dalle funzioni, cosicché allo sguardo della gente filosofo ed oratore coincidevano".
    Per questo è necessario ricondursi all'opera, a cui si fa allusione nel testo, che fra le prime, assieme al "Timeo" di Platone ed alla "Sacra Pagina", ha permesso la rinascita del pensiero proprio in virtù del sincretismo tra scienza ed eloquenza: il "De nuptiis Mercuri et Philologiae" di Marziano Capella.


    PARTE PRIMA - INTRODUZIONE ALL'OPERA

    CAPITOLO PRIMO - L'INTENTO DELL'AUTORE

    Marziano, oratore ed erudito cartaginese, i cui natali di poco precedono quelli di Boezio, assieme al quale può a buon diritto essere considerato l'ultimo dei Classici, recupera, come altri prima e dopo di lui, il fiore della cultura antica, nei precetti e nel modello della quale è stato istruito ed educato. Tuttavia, al contrario di suoi illustri predecessori che difendevano una cultura classica ancora sana e vigorosa contro la contaminazione dell'ellenismo, così come al contrario di suoi illustri successori che avrebbero tentato di rianimare quella stessa cultura ormai fiacca e decaduta contro la barbarie ed il crollo del mondo latino, Marziano sa bene che il mondo classico ed il suo sapere è giunto al termine della sua vita millenaria. Dunque, il "De Nuptiis" non è l'estrema fatica per tenere in vita la cultura latina, ma un testamento per lei redatto dal suo ultimo più illustre oratore.
    L'opera di Marziano è invece quella di racchiudere, come all'interno di un durissimo involucro, il fiore della sapienza morente, componendo così un'opera compatta, difficilmente penetrabile e che resista lungo i secoli fino ad una nuova latinità, un nuovo terreno fertile ove esso possa germogliare di nuovo e far ricrescere l'albero della sapienza. L'opera, quindi, ha la stessa costituzione del seme in cui il midollo scientifico è ravvolto da una robusta protezione, uno stile sovente artificioso e complesso, ricco di rinforzi retorici, stilemi ardui, asperità sintattiche ed arditi neologismi.
    In questo senso la scelta della materia da trattare è paradigmatica. Vi si trovano, infatti, tutte le arti esposte nei "Disciplinarum Libri" di Varrone, la grammatica, la dialettica e la retorica quanto al trivio e la geometria, la matematica, la astronomia e la musica quanto al quadrivio, tranne la medicina e la architettura. Non si può dire che nell'epoca in cui il "De Nuptiis" incontra tanta fortuna la architettura difetti in alcunché: basti pensare alle numerose cattedrali galliche; né che manchi la medicina, per lo meno nella impostazione data da Galeno: si considerino le università di Salerno e Montpellier. Non possiamo rimproverare a Marziano di aver omesso l'esposizione delle due discipline, giacché egli è ben fiducioso che, dopo la distruzione barbarica, esse sarebbero certamente rifiorite. Il vero timore dell'autore non è, infatti, che l'uomo non sappia più badare alle proprie necessità fisiche, del cibo, del cura del corpo e del tetto, poiché queste sono le prime occupazioni a cui attende, come afferma il Filosofo nel primo libro della "Metafisica"; piuttosto egli paventa che, dopo la caduta per opera dei barbari, la cultura classica ed il miracolo della sapienza intuita dai padri Greci e dai Latini non si ripeta più. L'estremo rimedio, in cui è riposta ogni speranza per il futuro, è condensare in una sola opera, il più possibile breve e densa, ciò che della cultura antica è necessario e sufficiente affinché possa essere intuita una seconda volta e risorgere dopo la morte.

    CAPITOLO SECONDO - LO SPIRITO DELL'OPERA

    Il "De Nuptiis" è una narrazione teologica inscrivibile nella tradizione neoplatonica. Il principio del platonismo, che informa tutta l'opera, si manifesta in modo evidente nella trattazione mitologica e misterica con cui vengono esposte le arti liberali. Il neoplatonismo, e sovente anche il pitagorismo, è presente a due livelli; un livello superficiale in cui sono raccolti i precetti ed i criteri aritmologici, la dottrina dell'uno e della ipostasi primaria dell'uno, del bene e dell'intelletto; un livello profondo, in cui è racchiuso il senso recondito dell'opera e che trova grandi analogie con la dottrina cultuale, misterica e teurgica a cui erano introdotti i filosofi neoplatonici al termine del corso scolastico, e che bene è rappresentato dalle stesse parole di Marziano:

    Tutti i membri del senato celeste aggiunsero che da allora in poi fossero assunti nel novero degli dei i mortali che l'insigne elevatezza di vita ed il sommo culmine dei grandi meriti avessero elevato al desiderio del cielo ed al proposito di tendere alle stelle (De Nuptis, 1, I, 94)

    Culmine dell'apparato sapienziale neoplatonico, a cui Marziano era senza dubbio iniziato, è infatti la conoscenza e la intellettuale dimestichezza con le "realtà divine", celesti, momento in cui parola e scienza, ritornano ad essere un Logos unico, come secondo le parole del Filosofo:

    La sapienza metafisica, infatti, fra tutte le scienze, è la più divina e la più degna di onore. Ma una scienza può essere divina solo in questi due sensi: o perché essa è scienza che Dio possiede in grado supremo, o perché essa ha come oggetto le cose divine. Ora, solo la sapienza possiede ambedue questi caratteri [...] Tutte le altre scienze saranno più necessarie di questa, ma nessuna le è superiore. (Metafisica, A 2)

    Orbene, meta di questa narrazione teologica è l'unione dell'intelletto con le realtà divine, il sommo grado della scienza, e lo strumento per raggiungerla è la parola. L'intera opera è infatti il percorso compiuto dall'intelletto per raggiungere, a cominciare dalla parola, cioè dalla grammatica e retorica, la sublime teoresi, l'astronomia e la musica; si ricordi che il Filosofo considera che il moto dei pianeti generi una armonia celeste. D'altronde, giacché è ben nota la ispirazione neoplatonica della opera marzianea, è possibile definire questo viaggio sapienziale un ritorno dell'anima alla divinità o, secondo le parole di Proclo, una "comunione mistica con l'Uno". A questo proposito risultano confacenti le parole di Plotino, nel primo delle "Enneadi", ove esorta: "fuggiamo dunque verso la cara patria [celeste]; la nostra patria è quella donde veniamo e lassù è il nostro Padre". Il tema dell'"iter animae", il viaggio della saggezza per mezzo dei doni offerti da divinità pagane personificanti le scienze, avrà successori illustri, primo dei quali è l'Anticlaudiano dell'illustre teologo inglese Alano ed in parte anche la "Commedia" di Dante.

    CAPITOLO TERZO - IDEE E PERSONAGGI DELL'OPERA

    La principale conseguenza della teologia platonica nell'opera di Marziano è di certo il principio del nascondimento ipostatico della forma, tradizionalmente riassunto nella sentenza: "La natura ama nascondersi" e presente in tutta la tradizione neoplatonica dall'epoca classica fino al rinascimento. Questa teoria considera che la natura, intesa non solo come sistema complessivo della realtà fisica, ma piuttosto come essenza delle cose partecipante delle forme archetipe e dell'uno, sia imprigionata nelle realtà materiali e che, dunque, vi si trovi in modo nascosto, coperto. Tutto il neoplatonismo dei secoli XV e XVI tiene talmente in conto tale principio che descrive la conoscenza della natura come un arduo cammino in una densa "sylva". In tutte le realtà emanate dai primi principi, al di sotto dunque delle Enadi divine, sono, secondo i teologi platonici, intrappolate nel composto materiale le forme, in modo tale che la corporeità e la singolarità costringano e nascondano la formalità e la universalità. Questa dottrina, a cui il teologo Marziano si consiglia, istituisce non solo i contenuti dell'opera, ma anche la tecnica letteraria e la tipizzazione degli artifici retorici. Come è per la realtà, così deve essere anche per il pensiero e la parola. Di conseguenza il testo marzianeo, prefigurando lo stretto legame, tanto caro in epoche seguenti, tra ente, concetto e parola, cela ogni concetto nella metafora e nella allegoria, ed in un complesso sistema di figure retoriche che la scuola di Chartres, commentando il "De Nuptiis", definirà "integumenta".
    Da ciò deriva la necessità di interpretare situazioni e personaggi. Già i primi commentatori, nell'alto medio evo, hanno ravvisato, sotto gli integumenta ed i consueti nomi della mitologia, un complesso di dottrine particolarmente ricercate ed erudite. Remigio di Auxerre nel Commento al "De Nuptiis" individua in Mercurio il "sermo", il discorso retoricamente costruito, quindi la retorica stessa, ed in Filologia la stessa ragione umana e le conoscenze da essa acquisite, quindi tutto lo scibile umano. Giovanni Scoto Eriugena ravvisa in Mercurio il nous, in senso platonico, cioè l'intelletto. Tuttavia, i commentatori carnotensi Guglielmo di Conches e Bernardo Silvestre concordano nell'identificare Mercurio con il "sermo", ovvero il discorso, sia esso parlato o scritto, purché costruito secondo le più raffinate tecniche retoriche. L'interpretazione della figura di Filologia è a sua volta dibattuta, a causa della etimologia del nome, derivante dai termini greci filo e logos, che significano amore per il logos; "logos", infatti, fin dalle dottrine presocratiche, ha una supposizione confusa, giacché talvolta suppone per "discorso", talaltra per "pensiero", razionalità o conoscenza razionale, talaltra per ordine universale o principio naturale. Indicare in Mercurio la allegoria della parola e di retorica indurrebbe ad escludere il primo significato mentre il fatto che, in certi casi, Filologia sia figlia di Fronesis, come sarà nel poema di Alano, indurrebbe ad escludere il terzo. In tal modo, le nozze di Mercurio e Filologia sono allegoria dell'unione dell'intelletto alla parola, della razionalità al linguaggio; tuttavia, poiché l'unione viene celebrata al cospetto del celeste consiglio, logos e sermo divengono un'unica realtà, e non a livello delle idee umane, bensì delle forme intelligibili, delle "substantiae separatae".
    Le sette arti liberali, doni di nozze offerti dalle divinità che rappresentano ciascuna disciplina, sono le stesse indicate nelle successive "Istituzioni" di Cassiodoro, nel "Didascalicon" di Isidoro di Siviglia e nelle "Etimologie" di Ugo di San Vittore. La trattazione disciplinare ci riporta molto dei Libri delle Discipline di Varrone, sfortunatamente perduti, ma introduce un sostanziale mutamento di ordine nella successione delle arti del quadrivio, che cambia da musica, aritmetica, geometria, astronomia a geometria, aritmetica, geometria, musica. Nella esposizione varroniana la musica precede le altre discipline in quanto considerata caposaldo della educazione insieme alla ginnastica, come si legge nella Repubblica di Platone; considerazioni analoghe sulla necessità per l'uomo della conoscenza e pratica musicali sono espresse da Quintiliano nel "De Institutione Oratoria" e persino da Montesquieu nello "Spirito delle Leggi". Nel "De Nuptiis", invece, la successione delle arti non segue un criterio pedagogico, ma la gerarchia stessa dell'universo; secondo Marziano, infatti, le scienze si succedono da ciò che è più terreno e materiale passando a ciò che è poi più astratto, le matematiche, a ciò che è sempre più celeste e divino, quali i moti immutabili dei corpi celesti e l'armonia del microcosmo e del macrocosmo, l'astronomia e la musica. Questo stesso ordine è adottato dalla scuola di Chartres per istituire la gerarchia delle discipline; scrive infatti Teodorico di Chartres nel Commento alla "De Trinitate" di Boezio:

    Il fisico considera le forme in quanto sono nella materia, e perciò considera il moto, cioè la mutabilità. [...] La matematica, invece, prescinde dal movimento; tuttavia, Boezio afferma che la matematica è non astratta, perché considera le forme non separate dai corpi stessi. [...] La teologia, infine, è la contemplazione della forma divina, che nulla deve alla materia perché in nessun caso si mescola ad essa.

    CAPITOLO QUARTO - IL CONTESTO SCIENTIFICO E LE FONTI DELL'OPERA

    La condizione del sapere in cui il "De Nuptiis" viene alla luce è, come si è detto, irrimediabilmente compromessa dall'imbarbarimento e dalla decadenza. In un tale stato di cose, la composizione di un'opera enciclopedica, come la "Naturalis Historia" di Plinio, sarebbe un'impresa inopportuna; il tentativo, invece, di condensare la enkiklospaideia classica in una opera densa e compatta è la sola via sicura. Le grandi summe del sapere classico dovranno attendere per secoli, a parte per il timido esempio di Alessandro Neckam, fino ad Alberto di Colonia o Ruggero Bacone; durante tutto l'alto medioevo, infatti, le dottrine di pochi dotti condivideranno quella sorta di prigionia delle idee, iniziata con Marziano, chiuse da impenetrabili mura di un linguaggio ed uno stile ardui ed artificiosi e strette dai tenaci legami di stratagemmi retorici inaccessibili e simboli infarciti di dogmi teologici.
    Fonte principale dell'opera sono i "Disciplinarum Libri" di Varrone, composti tra il 33 e 34 a.C. ed oggi noti unicamente per i frammenti e la testimonianza di Aulo Gellio ed Agostino, che espongono una ad una le arti liberali, già ripartite nell'opera in trivio e quadrivio, la medicina e l'architettura. L'opera, compilata in uno stile molto piano e poco ricercato, fu accolto subito con benevolenza da Cicerone, che ne parla negli "Accademici Secondi" I, 9, da Virgilio, nella "Georgica" sull'Agricoltura, e da altri enciclopedisti latini, Flacco, Plinio e Svetonio.
    Se il "De Nuptiis" è debitrice a Varrone quanto alla trattazione disciplinare, l'antecedente letterario tuttavia più prossimo all'opera di Marziano, ancor prima del commento di Calcidio al "Timeo", è il "Somnium Scipionis" di Cicerone, narrato nel VI libro della "Repubblica" ed ampiamente trattato dal Commento di Macrobio, che illustra la religione astrale. Il supremo, il celeste (l'opera è ambientata in cielo e non sull'Olimpo) ed il divino, che conferiscono all'opera il valore filosofico, derivano dal neopitagorismo, neoplatonismo, ermetismo e le antiche religioni romana, etrusca ed egiziana.
    La forma narrativa a sua volta attinge particolarmente dalle "Metamorfosi" di Apuleio, soprattutto per la favola di Amore e Psiche. Le analogie con il "De Nuptiis" sono molteplici; in entrambi i racconti, la cui narrazione piacevole e delicata nasconde tuttavia significati simbolici di sacrale grandezza, si parla delle nozze tra un dio ed una mortale, che assume la divinità appunto sposando un dio; sia in Apuleio che in Marziano sono presenti Psiche, le Grazie, Fides, Cupido, Voluttà, Portunno ed altre figure mitologiche. La forma narrativa, parte in prosa parte in versi, detta prosimetro, affianca il "De Nuptiis" alla "fabula milesia", alle "Metamorfosi" di Apuleio, alle "Opere" di Menippo di Gadara, ed alle "Satire" di Varrone, che si ispira allo stesso Menippo oltre che ad Ennio e Lucilio.


    PARTE PARTE SECONDA - LE DISCIPLINE

    CAPITOLO PRIMO - IL RACCONTO

    L'intera opera può essere divisa in due parti. La prima, per lo più narrativa e costituita da due libri, parla della ricerca di una moglie da parte di Mercurio e la presentazione di Filologia al consesso degli dei. In principio, Mercurio, indeciso sulla scelta tra Sofia, Mantica e Psiche, è consigliato dal fratello Apollo di sposare Filologia, figlia di Fronesis, che conosce i segreti della terra, del cielo e del mare e che possiede un sapere razionale ed universale. Mercurio, ardente così d'amore per la sposa designata, dispone numerose sue ancelle, le discipline, di preparare i doni per le nozze e lui stesso, per compiacere la fanciulla mortale già peraltro innamorata del giovane Cillenio, acquisisce raffinatezza ed affettazione nell'eloquio, che arricchisce con eleganza ed ornamenti stilistici, impara a suonare il liuto, la lira e la "dotta" cetra. È conveniente che egli si unisca in matrimonio con quella stessa fanciulla che non tollererebbe che egli chiudesse gli occhi nemmeno quando egli volesse riposare.
    La seconda parte, per lo più teoretica e densamente allegorica, è costituita da sette libri, in ciascuno dei quali le arti liberali del trivio (grammatica, dialettica e retorica) poi quelle del quadrivio (geometria, aritmetica, astronomia, musica) espongono la somma della conoscenza umana e divina.

    CAPITOLO SECONDO - LE ARTI LIBERALI

    Vediamo ora le arti liberali secondo la narrazione del "De Nuptiis", chiosando ciascuna secondo la tecnica del commentario, così da vedere tutte le arti che componevano la enciclopedia della cultura antica.

    La grammatica
    L'esposizione della grammatica occupa il libro terzo dell'opera. La antica grammatica, termine dal greco "Grammatiké", "poiché grammé è detta la linea e grammata le leggere" fondata dai Sofisti, come si legge nel "Cratilo", era studio fonetico, grammaticale, sintattico e etimologico del linguaggio, nonché dell'uso delle parole, ma anche della letteratura (grammatica in latino è Litteratura) e della poesia, poiché "si ritiene che ella conosca carmi astrusi e multiformi ritmi, per opera di un frequente calcolo"; l'insegnamento di questa disciplina, come sarà anche più tardi, era costituito dalla lettura e glossa del testo, ovvero dalla spiegazione grammaticale di ciascuna parola, dall'esposizione delle figure retoriche, di etimologie ed informazioni storiche mitologiche e scientifiche che permettessero una migliore comprensione. Il grammatico latino, inoltre, sebbene avesse cura, come ci racconta Quintiliano nella Istituzione, solo del secondo momento del corso di istruzione del giovane, non doveva possedere una cultura limitata ai poeti, ma anche "compulsare ogni genere di scrittori, non soltanto per i contenuti, ma anche per il lessico"; si vuole anche che il grammatico sia colto, giacché Grammatica spiega che "il compito allora era stato di scrivere e leggere in modo corretto; ora si è aggiunto anche il seguente, che sia di mia pertinenza comprendere e comprovare in modo dotto: e questi due compiti sembrano essere comuni a me, da un lato, e, dall'altro, ai filosofi ed ai critici". Il cumulo di competenze retoriche e filosofiche, oltre che grammaticali, caricato al grammatico è lamentato da Quintiliano, che, pur non negando che qualcuno tra i professori di grammatica possa giungere ad un grado di cultura tale da essere idoneo ad insegnare retorica, dice che, in quel caso, il grammatico svolgerà un compito non proprio. Tuttavia, questo mostra come nell'antichità si volesse che lo studioso di lettere fosse anche edotto nella filosofia ed avesse competenze scientifiche.
    Grammatica è presentata nel "De Nuptiis" come la più anziana delle ancelle di Mercurio, poiché è "nata a Menfi quando ancora regnava Osiride". Come per tutte le scienze nell'antichità, si riteneva che Grammatica fosse nata in Egitto, qui rappresentato da Menfi, capitale spirituale del regno, in tempi mitologici, così come mitologico è il legame che unisce grammatica a Mercurio. Igino, nella sua Mitologia, afferma che Mercurio, rifugiatosi in Egitto ed adorato come Touth dopo aver ucciso Argo, avrebbe inventato le lettere ed i numeri per l'umanità; così afferma anche Servio nel sesto del suo Commentario all'"Eneide" di Virgilio ed anche Platone conferma nel "Fedro" la storia. Quanto alle vesti di Grammatica, benché si sia tradotto "ingressa est paenulata" con "entrò con un mantello romano", Remigio traduce "paenulata" con "vestita di una penula"; mentre il "mantello" è un panno pesante, utilizzato nei momenti di lavoro, cosa che allude al compito più pratico, materiale e propedeutico della grammatica rispetto alla dialettica ed alla retorica, la "penula" è un abito di seta utilizzato dalla nobiltà romana. Crediamo che la traduzione di Remigio sia comunque corretta, sebbene sia più coerente al ruolo di un grammatico del XI secolo che del V secolo. Come afferma Quintiliano, tuttavia, il compito designato del grammatico era impartire le prime nozioni a giovani studenti, curare gli errori più evidenti come lo scultore sbozza il blocco di pietra da cui trarrà la statua, ma anche essere perito nella poesia, nella filosofia, di musica e di astronomia e "possedere una eloquenza non indifferente per parlare con proprietà e compiutezza di tutti gli argomenti"; nei secoli successivi il titolo di grammatico è piuttosto assegnato a maestri di comprovata cultura, conoscenza dei testi classici e competenza nel commentarli, e di erudizione letteraria e filosofica, nonché scientifica, ciò che spiega la traduzione di Remigio.
    Grammatica reca "un recipiente tornito, costituito da parti compatte e ben connesse tra loro, che riluceva all'esterno di lieve avorio, da dove, come solerte insegnante di medicina, estraeva i segni delle ferite che andavano curate". Grammatica, il cui nome latino è Litteratura, si costituisce come unità di regole e strutture linguistiche ed equilibrio e raffinatezza estetiche, sincretismo di principi scientifici, detti "parti compatte e ben connesse tra loro", ed ornamenti di "lieve avorio". La grazia di cui la verità è ammantata non è, secondo Marziano, per nulla solenne o manifesta, ma delicata e sottile, percepibile solo alla vista dei dotti. Lo stesso vaso ben rotondo è il recipiente di verità, il medesimo che Lucrezio invoca nelle parole "la verità ben rotonda".
    Da questo vaso estrae uno stilo "dalla punta acuminata e scintillante con cui diceva che si possono recidere ai fanciulli i difetti della lingua e diceva che i medesimi difetti possono essere risanati con una certa polvere nera iniettata per mezzo di cannucce". Sono qui esposti gli strumenti di scrittura utilizzati da maestri e studenti come rimedi contro l'ignoranza. La lettura della Istituzione oratoria ci permette di interpretare le parole di Marziano. Per prima cosa, nei giovani allievi la scrittura è la medicina più efficace contro gli errori e l'inesperienza ed è preferibile che essi cerchino in principio di mettere per iscritto i loro pensieri affinché le loro menti ancora deboli traggano vantaggio nella lentezza e meditazione dello scrivere piuttosto che confondersi per la impulsività ed impreparazione che ancora dominano la loro parola. Per secondo, si ritrova l'analogia, frequente nei testi classici, tra l'arte del maestro di correggere l'errore e l'arte dello scultore di incidere la pietra. Quintiliano, nel secondo libro della Istituzione, afferma: "io desidero anzitutto che vi sia materia su cui lavorare, magari anche in eccesso ed effusa oltre il necessario; l'importante è però che ci sia da dove tagliare e di che scalpellare". Dopo aver mostrato gli utensili di scrittura, lo stilo e l'inchiostro, Grammatica "estrae una medicina mostro aspra di un colore estremamente rosso". È il colore della correzione e della vergatura, i cui segni, lasciati dalla penna di un maestro severo, flagellano le pagine dense di errori degli scolari e percuotono gli occhi con il loro bagliore. Infatti, "né Pallade né il figlio stesso di Maia avrebbero negato che ella poteva recare aiuto ai vizi della lingua".
    Grammatica "mostrava anche un graditissimo gusto, frutto del lavoro di molte veglie con molto olio di lucerna, con cui ella informava che, scacciata l'asprezza di una voce spiacevolissima, si poteva persino divenire melodiosi". Lo studio notturno, il vegliare sui libri, è tenuto molto in conto nella tarda latinità; Seneca ricorda, nel primo libro delle Lettere morali a Lucilio, di preferire la notte al giorno per lo studio delle opere più amate, sia perché la mente sembra gradire particolarmente le opere che ci sono care sia perché la veglia è un esercizio di assiduità e di virtù. L'applicazione allo studio dalle ore tarde fino alle prime luci è consigliato dall'etica stoica giacché la misura delle forze fisiche e mentali che un tale impegno richiede aiuta l'uomo nell'acquisizione di un equilibrio dei sensi e dell'intelletto, che si manifesta proprio in "graditissimo gusto" e "voce piacevolissima" e nella "modestia e verecondia" con cui la ancella di Mercurio solleva la veste. Lo stesso Aulo Gellio, nella introduzione alle Notti Attiche, scrive di aver letto e redatto intere opere in veglie notturne; il Filosofo, inoltre, nel principio della Grande Etica, scrive che le veglie temprano il corpo.
    "È sua usanza trattare in primo luogo del nome", "poi richiede i modi dei verbi, i tempi e le figure". Molte delle più antiche summe di logica di autore anonimo, quali l'ars emmerana o i commenti "In Priscianum" o "In Donatum", o di autore noto, quali le "Istituzioni grammaticali" di Prisciano o le "Arti" di Donato mostrano questa stessa articolazione di argomenti. Per primo è trattato il nome, poi il verbo, poi le proposizioni e le loro figure. La sequenza didattica esposta da Marziano, e di origine ben più antica giacché attribuita ad Aristotele, era quindi utilizzata come modello d'insegnamento della grammatica e della logica nelle scuole latine fino al XV secolo.

    Grammatica "ordinava di percorrere e salire i gradi di quanti più lavori possibile [...] affaticare gli allievi con l'intera sua arte". Tale sembra anche essere il parere del nostro Quintiliano, nel primo capitolo del primo libro della "Istituzione oratoria", ove si legge che ogni vantaggio "conquistato con lo studio precedente, passando da un anno all'altro, incide positivamente sull'esito generale, ed il tempo investito in anticipo nell'infanzia è un guadagno per l'adolescenza". La stessa norma valga anche per gli anni successivi: "Quel che ciascuno deve apprendere, non inizi ad apprenderlo in ritardo". Se, tuttavia, possiamo approvare che il maestro faccia progredire in anticipo negli studi gli allievi, giacché costoro acquisiscono in tal modo capacità di svolgere il compito bene ed in tempi brevi ed assiduità nel lavoro, dissentiamo che si debba affaticare gli studenti per eccesso di studio o per insistenza solo su alcuni argomenti; come infatti afferma Quintiliano nel dodicesimo capitolo del primo libro, la varietà degli studi ricrea e rinfranca lo spirito, ma riesce ben più difficile perseverare in un'unica fatica. È certo, tuttavia, che si possa aver fiducia nella resistenza dei giovani dacché, nello stesso capitolo, leggiamo che non bisogna affatto temere che i ragazzi sopportino con eccessiva difficoltà la fatica degli studi, giacché la mente, prima di essere definitivamente formata, è docile all'apprendimento.
    Infine, Grammatica afferma di essere costituita di quattro parti: le lettere, la letteratura, il letterato e lo stile letterario; le lettere sono quelle che ella insegna, la letteratura è lei stessa che insegna, il letterato è colui al quale ella ha insegnato e lo stile letterario è ciò che colui che è educato tratta in modo esperto. Che, dunque, alla grammatica concernano la disciplina ed il grammatico, la materia e lo stile allo stesso tempo fonda la questione sui paronimi, ovvero su quei termini che possono essere allo stesso tempo nomi di cose e persone od aggettivi di cose e persone, e sarà risolta da Anselmo nel dialogo "Il Grammatico", ove spiega che grammatico di per sé significa grammatica ma appella indirettamente l'uomo grammatico.
    Grammatica spiega, al termine della sua presentazione, che la natura della disciplina grammatica viene da quali elementi sia formato il discorso, mentre l'uso prende nome dal fatto che con esso noi usiamo questi medesimi termini. In queste parole, Grammatica inaugura le correnti di studio che animeranno la disputa scientifica parigina successiva, ovvero la "speculativa" e la "pragmatica". La prima, a cui si rifanno Boezio di Dacia, Matteo da Bologna, Michele di Marbais, Gentile da Cingoli, Simone Faversham, Sigieri di Courtrai e Tommaso di Erfurt, aspira alla deduzione di fondamenti universali di tutte le lingue; la seconda, a cui appartengono Roberto Kildwarby, Ruggero Bacone, maestro Giordano e Simone di Dacia, volge lo sguardo ai meccanismi della comunicazione, secondo la regola, posta nel dialogo "Il Maestro" di Agostino, secondo cui la parola è ciò che proferita da chi parla è capita da chi ascolta.
    La trattazione di Marziano espone le lettere, in modo molto simile alla "Arte Metrica" di Beda, le loro posizioni, la loro pronuncia, le sillabe, le parti del discorso, le declinazioni e le coniugazioni ed attinge dall'opera grammaticale di Diomede per quanto riguarda la definizione della sillaba, di Vittorino e Servio per i pronomi, i verbi, i participi, le congiunzioni, le preposizioni e le interiezioni, e di Prisciano.
    Il libro, poco fortunato e poco commentato sia da Remigio che da Scoto, è bruscamente interrotto anche da Marziano; Minerva, infatti, intima il silenzio a Grammatica "a motivo del fastidio del senato dei celesti e di Giove".

    La dialettica
    La presentazione dell'arte dialettica, che occupa il libro quarto, inizia con la raffigurazione in distici elegiaci della ancella, anch'ella rivestita di molte forme simboliche. La seconda disciplina del trivio è lo strumento imprescindibile per tutte le arti successive del quadrivio e quindi legame inscindibile tra le lettere e le scienze. È Dialettica stessa a proclamare che tutte le scienze sono sotto il controllo delle sue leggi e che solo grazie ad essa posseggono una sistemazione, poiché essa è lo strumento di ragione di cui tutte si servono; la prima opera sistematica sulla logica, scritta da Aristotele, è perciò detta Organon, dal termine greco "strumento". Dichiara infatti Dialettica che è del tutto sotto il suo controllo tutto ciò che le restanti arti espongono, siano esse quelle del trivio, come la Grammatica o la Retorica, insigne per la facondia della ricca espressione, siano quelle del quadrivio, soprattutto le matematiche, Aritmetica e Geometria, che non possono essere in alcun modo spiegate senza i suoi ragionamenti. Sotto il controllo di Dialettica stanno sei norme, a cui corrispondono i procedimenti delle discipline; essa infatti controlla i termini, le espressioni, le proposizioni, i sillogismi, la critica dei poeti e il discorso. Anche Cicerone, nel quinto delle "Tusculane" riconosce che le arti liberali, per poter esporre la propria materia, hanno bisogno di mezzi tecnici, in particolare logici, e che tali sono forniti solo dalla dialettica; così anche Agostino nel secondo sull'ordine delle parole, e Boezio, nel commentario a Porfirio.
    Quanto al nome di Dialettica, è la stessa disciplina a lamentare di non avere presso i "discendenti di Romolo" un nome proprio e che perciò è chiamata con il nome greco.
    Remigio di Auxerre incomincia così il suo commentario al libro IV delle Nozze di Marziano: "Per prima cosa occorre trattare del nome della dialettica, il quale per il seguente motivo è rimasto non tradotto, né è stato trasposto o tramutato nella lingua latina, poiché, qualora fosse stato tradotto, sarebbe stato ritenuto il titolo di un'opera. Dialettica, infatti, si interpreta 'sulla dizione'. Perché, dunque, non possa sembrare un titolo, così è chiamata presso i Latini così come anche presso i Greci, ossia dialettica. Dia cioè 'su' (de, a proposito di), lexis si traduce 'dizione'. In effetti dia, quando si scrive con la i (greco dia), significa 'su' oppure 'da', quando invece si scrive con la y (greco duo), significa 'due'".
    Nel libro la disciplina è rappresentata qui in due momenti; per primo è descritto il suo aspetto fisico, per secondo il carattere intellettuale.
    L'educazione liberale di Marziano ha trattato di certo la disciplina logica come ormai interamente asservita alla retorica, cioè come strumento sofistico per tessere trame sottili nelle dispute forensi. È evidente, come si vede nella seconda parte, che Marziano doveva attribuirle anche un altro compito, ma poiché ammette che l'aspetto della dialettica sia quello di una disciplina solamente e inutilmente cavillosa, contorta ed artificiosa, ne descrive l'apparenza esteriore in modo che sia il lettore sia gli dei che la accolgono nel senato celeste si ingannino sul suo vero valore e la considerino solo per la sua immagine, così come d'altronde altrettanto superficialmente la consideravano i sofisti, colpevoli dello stato in cui si trovava la dialettica al tempo della composizione. Anche Remigio sembra tenere in conto Dialettica ed interpreta alcune particolarità del testo per mostrare un celato apprezzamento di Marziano per tale disciplina, poiché scrive nel commento: in "anche questa" si intende dialettica e si dice "anche", ovvero similmente, come anche Grammatica. Tuttavia, Grammatica non è stata accolta così facilmente né con tanto onore, poiché non è stimata tanto né ha un dignità tanto grande come Dialettica, ma poiché era assistente di Dialettica, anch'ella ha ottenuto di essere ricevuta.
    "Stringendo", ovvero compendiando, le medesime "espressioni". Infatti, non ha discusso tanto ampiamente e a lungo come Grammatica sui principi dei declinabili".
    Marziano conferisce onore celeste a Dialettica, giacché il senato degli Dei :

    "Nessun culmine pari mai toccò a tanta prole di uomini,
    né a caso a te fu dato tanto prospero onore:
    nelle sedi sacre agli dei divinamente è lecito, Dialettica, parlare:
    come un maestro insegni al cospetto di Giove"
    .

    È bene notare che Marziano chiama Dialettica con il titolo di "magister" per invitarla a presentare la sua arte agli dei. Infatti, nella tarda antichità e particolarmente nelle scuole di retorica andava diffondendosi, accanto al "magister", il titolo di "professor" e, benché con entrambi si riconoscesse all'insegnante conoscenza e pratica della materia, il primo era usato in modo reverenziale e indicava il pedagogo virtuoso o il vero educatore, il secondo era usato in modo più polemico per additare uno sfoggio eloquente di sapienza, presunzione, artificio e puntiglio, come ci racconta un anonimo anglico, in una ars, di "certi professori di dialettica che si chiedono se chi porta il maiale al mercato sia il contadino o la corda".
    Dunque, se si deve anzi ammettere che nelle scuole di dialettica circolino certi sofismi ripugnanti, è bene, secondo Marziano, chiamare questi sofismi non con il nome di dialettici ma con quello dei loro tessitori. Spiega infatti Remigio che si deve distinguere tra quattro generi di filosofi, poiché vi sono infatti i dialettici, i retori, i sofisti, che concludono sempre il falso, e gli esperti di diritto, che disputano sugli stati della legge. È bene notare che il commentatore distingue tra dialettici e sofisti, che nel testo sono tutti nominati come tali, non come dialettici:

    "Benché i sofismi stoici circolino, ingannando i sensi,
    e in fronte abbiano corna che mai non hanno perso,
    benché Crisippo accumuli e consumi il proprio mucchio,
    e Carneade rechi pari forza con l'elleboro"
    .

    Dopo Aristotele, che Marziano mostra pallido per ricordare, secondo una topica comune ai poeti, il suo impegno nello studio e di cui ricorda le dieci categorie, che chiama genericamente modi, sono presi in considerazione i sofismi. Per primi i sofismi stoici, i celebri paradossi, a cui anche Cicerone dedica un opera, intitolata proprio "Paradossi stoici"; in particolare si ricorda il sofisma delle corna, riferito da Diogene Laerzio nelle "Vite dei Filosofi" (VII, 187) ed indicato come modello di maligna sottigliezza anche da Seneca nella IL lettera a Lucilio ed anche da Aulo Gellio nelle "Notti Attiche" (XVI 2, 10), che recita "quello che tu non hai perduto ce l'hai: ora tu non hai perduto le corna dalla fronte; dunque, tu hai le corna in fronte". È poi nominato Crisippo, terzo a capo della scuola stoica antica, dopo Zenone e Cleante, chiamato da Remigio "principe degli stoici" e ricordato da Diogene Laerzio (VII, 192), da Persio, poeta satirico di età neroniana, stoico e possessore della intera produzione filosofica di Crisippo, da Cicerone, che ne parla negli "Accademici" (II, 49), da Orazio nelle "Lettere" (II, 1, 47) e da Sidonio Apollinare nei "Carmi" (23, 119), per il suo sofisma, detto sofisma del sorite, che recita "se si toglie un chicco alla volta da un mucchio di grano, quando si potrà dire che il mucchio sia finito?". Remigio commenta il sofisma secondo la teoria del genere e delle sue specie, dicendo che quando Crisippo accumula, ovvero divide l'uno in molti, divide il genere nella specie, secondo il procedimento propriamente chiamato "litike", mentre consuma il mucchio quando riduce la molteplicità delle specie in un unico genere, secondo il procedimento detto "analitike", per il quale uomo e cavallo sono uniti nel genere animale.
    Infine, si fa il nome di Carneade, filosofo scettico del II secolo a.C. L'elleboro, che troviamo nei versi, è, secondo quanto Valerio Massimo racconta nell'ottavo dei "Fatti e Detti Memorabili", una droga, ricavata dalla pianta, di cui il filosofo scettico si sarebbe servito per acuire la mente prima di una disputa con Crisippo; l'aneddoto è ricordato anche nel XVII delle "Notti attiche" (XVII, 15, 1) e da Plinio nel XXV della "Storia Naturale", ove si legge "trasuda l'elleboro di Carneade".
    Riguardo a sofismi e sofisti di diverse scuole, Remigio di Auxerre nel Commentario al "De Nuptiis" sostituisce "circolino" con "circuiscano, ossia ingannino" ed sostiene che i sofismi stoici, ovvero i cavilli o conclusioni false, siano propriamente scherzi con irrisione, che illudono e deludono i sensi degli uomini con astuta argomentazione; perciò, conclude Remigio, è sofista colui che conclude il falso, evidentemente qualora ponga delle premesse in modo tale che, se si concede la proposizione e l'assunto, volente o nolente ne consegue una conclusione falsa. Tuttavia, è diversa la interpretazione del commentatore all'aneddoto delle corna, definite invece come "acume dell'ingegno e spietatezza dell'ingannare, che i sofisti non abbandonano mai"; per questo, i sofisti hanno sempre le corna sulla fronte e le loro dimostrazioni, fallaci ed ingannevoli, dacché possono concludere da entrambe le parti, sono chiamati "sillogismi cornuti" o di-lemmi.
    Vediamo, dunque, in principio del libro quarto, questa raffigurazione di Dialettica con cui Marziano confonde il lettore circa la vera natura della disciplina:

    "Anche questa, stringendo in nodi contorti espressioni,
    senza la quale nulla consegue né si oppone,
    all'accolta di dei venendo, con sé recò i principi
    del dire, e apprestò lo scolastico assioma
    secondo cui il discorso consiste in ambigue espressioni
    nulla considerando normale, se non associato"
    .

    Dialettica avvinghia le espressioni in nodi contorti, nelle sottigliezze insolubili del ragionamento. Il verso latino "contortis stringens effamina nodis" si presenta molto simile, sia per il lessico che per la costruzione, ad un verso dei "Fenomeni e Pronostici" di Arato di Soli, in cui leggiamo "bracchia contortis astringunt vincula nodis", "con nodi attorti i vincoli cingono le braccia". Anche Remigio interpreta "nodi" come questioni sottili ed intricate.
    Ella porta inoltre con sé il principio di ambiguità delle parole nel discorso, simile alla massima che si trova nella "Dialettica" di Agostino, ove si legge che in modo affatto corretto è detto dai dialettici che ogni parola è ambigua. La questione è tuttavia più articolata della semplice citazione scolastica. Nel testo non si legge, infatti, "ambigue parole", ma "ambigue espressioni", che Remigio indica con proposizioni od enunciati. La ambiguità potrebbe, tuttavia, o riguardare i termini in quanto formano la proposizione significante vera, ed in tal caso il problema riguarderebbe la appellazione, oppure riguardare i termini in quanto formano una proposizione vera secondo la intenzione, ed in tal caso il problema riguarderebbe anche l'uso metaforico od allegorico dei termini. Il tipo di associazione che risolve la ambiguità dei termini è nel primo caso l'associazione delle parole alla realtà delle cose, nel qual caso la proposizione è scientificamente vera ed è detta definizione, mentre nel secondo caso è l'associazione delle parole alle intenzioni ed alle figurazioni o alle impressioni, nel qual caso la proposizione è vera in senso traslato ed è detta involucro. La norma che fuga la ambiguità delle espressioni può dunque essere una norma di verità o una norma metaforica; la prima segue la teoria aristotelica della verità come conformità delle espressioni alle cose o come associazione dei termini alle cose, come si legge nella distinzione "Del Vero" dell'opera "Divisioni" di Aristotele, o nella forma di Avicenna della "adaequatio rei et intellectus", che troviamo nel libro quinto della sua "Metafisica". Dialettica stessa dichiara d'altronde, all'inizio della propria esposizione, essere la sola in grado di discernere il vero dal falso, secondo il noto asserto di Cicerone, nel secondo libro degli "Accademici", secondo il quale la dialettica è unica arbitra del vero e del falso.
    La seconda norma sembra seguire regole diverse a seconda degli autori. Di certo la metafora è una associazione traslata rispetto alle idee delle cose, come dice Donato nel terzo della "Arte Maggiore", ove si legge che il tropo è una dizione traslata dalla propria significazione ad una similitudine non propria a vantaggio dell'ornato o della necessità, così come ricorda anche Giovanni di Salisbury nel "Metalogicon" I, 19. È anche evidente che la metafora non è una associazione alle cose, poiché il suo senso letterale è assurdo, e che si deve supporre di trovarsi di fronte ad un senso traslato; scrive infatti Isidoro di Siviglia nel primo delle "Etimologie" che "metaphora est usurpata translatio". Perciò, la metafora si compie nella associazione intellettuale, non reale, secondo quanto scrive Goffredo di Vinosalvo nel "Documento". Si consideri una parola, dice Goffredo, che deve essere trasferita, e di quali cose sia propriamente detta e, se si vuole trasferirla ad un'altra cosa, si deve evitare che vi sia una similitudine tra le loro proprietà; si deve "perscrutare" in quella parola qualcosa di comune, che convenga a più parole di quella sola, e una proprietà comune che conviene a qualunque di esse conviene a quella parola in modo traslato. Dunque la metafora è una espressione associata non tanto alle cose, quanto, in modo traslato, ai pensieri delle cose ed alle intenzioni umane circa esse. E sulla associazione è sufficiente quanto detto.
    Dialettica entra vestita del pallio, che ne indica l'origine greca, pallida, dallo sguardo molto acuto e con gli occhi vibranti di un moto continuo. I capelli, ondulati, increspati ed intrecciati, conferiscono eleganza e sono lasciati cadere in alcuni gradi sequenziali e circondano la forma del viso. Tutti questi dettagli, sebbene appaiano sgradevoli se considerati uno ad uno, sono uniti in modo diligente nella figura della disciplina tanto che in essa ci si accorge che nulla manca e che nulla si può trovare di superfluo; allo stesso modo ciascuna regola logica, di per sé oscura e sottile, ogni procedimento dimostrativo, laborioso e pedante, qui figurati dalla tortuosità dei capelli, ed ogni consequenzialità argomentativa, rappresentata dalla acconciatura, quando sono uniti in un'unica arte costituiscono un sapere armonioso ed elegante, di una natura tanto singolare da dover ammettere che solo ad essa si addice, in cui nulla manca e nulla eccede. Remigio, nel commento a questo passo, sostiene che proprio questi sono i requisiti per la buona definizione.
    Dialettica appare di corporatura un poco minuta, con un atteggiamento tenebroso, e addirittura irta di pelame cespuglioso, e cammina articolando pensieri per la maggior parte inspiegabili. La curiosa caratterizzazione di Dialettica come irta di peli si trova già nel XIII delle "Metamorfosi" di Ovidio, ove di legge "ed irti peli sul corpo le stanno bene"; Dialettica tiene alle braccia due segni inquietanti; ha ravvolto sul braccio sinistro un serpente dalle spire immense, una vipera insidiosa tenuta nascosta sotto il pallio, mentre nella destra, lasciata scoperta, porta delle tavole policrome di cera, sulle quali sono annotate meticolosamente alcune formule, tenute assieme da un uncino nascosto. L'uncino raffigura le sottili e penetranti dispute di Dialettica, delle quali lo stesso Cicerone ricorda il carattere appuntito e tortuoso nel secondo degli "Accademici", ove scrive: "allontaniamoci da tutte queste spine ed abbandoniamo il genere sinuoso della disputa". Con questo uncino, infatti, Dialettica cattura colui che tenta di interpretare le formule arcane e lo trascina nelle spire velenose del serpente nascosto, che si palesa e morde ripetutamente l'uomo e lo avvinghia in una stretta inestricabile. Questo abbraccio con cui gli inesperti nelle regole logiche, impreparati alla disputa, sono stretti è secondo Remigio la "complexio", il termine tecnico che indica l'unione delle premesse nel sillogismo; tuttavia, l'immagine ricorda anche il bracciale a forma di serpente arrotolato con cui i retori antichi adornavano il polso.
    Marziano spiega che qualora nessuno volesse assumere una formula qualsiasi, Dialettica preveniva ed impegnava quelli che incontrava con alcune piccole domande, o istigava il serpente a strisciare di nascosto contro di loro, finché non avesse intrecciato il suo abbraccio e, una volta circondati, non li strangolava secondo l'arbitrio di lei che poneva domande. Il procedimento dialettico qui figurato utilizza gli stessi artifici del dialogo socratico, l'ironia, che si insinua come la serpe, la brachilogia, ossia domande brevi e precise, e la confutazione finale, che sopprime il giudizio dell'avversario. La disciplina spiega infatti che, dopo essere stata educata in Egitto ed aver studiato presso la scuola di Parmenide, sarebbe giunta in Grecia, laddove, come si legge nel testo, avrebbe praticato uno studio dissimulatore, tale da mutare sempre pelle, e rivendicato anche la grandezza di Socrate e di Platone. Lo studio dissimulatore è certamente la dialettica sofistica, in modo particolare gorgiana, di cui si ricorda il discorso in difesa di Elena di Troia; è da notare, tuttavia, che anche la dialettica socratica è qui accomunata ai procedimenti sofistici, con i quali dialettici abili nel ragionamento ingannevole avrebbero raggirato moltissime persone.
    Durante la esposizione, il serpente di Mercurio, rizzatosi sul caduceo tenta di lambire Dialettica con "frequenti ammiccamenti della lingua", la qual espressione ricorda il passo di Silio Italico, nel sesto "Guerra Punica", "la lingua ammicca in movimento, e, saltando su, lambisce l'aria"; che il serpente di Mercurio, che rappresenta l'eloquenza, tenti di accarezzare Dialettica con la lingua e le si insinui, è integumento del fatto che questa disciplina può essere avvicinata solo usando ragionamenti sinuosi e per mezzo della lingua, ovvero della parola, e che dunque non vi sia altro modo per dominarla se non seguire le sue leggi.
    Il senato degli dei si interroga sulla provenienza di Dialettica. "Sicuramente", dice Bromio, "costei o arriva dalle sabbie della boccheggiante Libia, il che è suggerito dall'intreccio dei capelli e dalla amicizia con le bestie velenose, oppure si deve credere che sia una venditrice di veleni della regione marsica, a tal punto infatti è prediletta nel riconoscimento delle vipere e dall'insinuatrice adulazione dei serpenti. E se le cose non stanno così, dall'inganno di quell'uncino si deduce che, come risulta comprovato, è una astutissima ciarlatana ed una abitante delle regioni marsiche". Bromio, ossia Bacco, è indicato da Marziano come il più spiritoso ("facetior") degli dei ed è detto non conoscere affatto Dialettica. Bacco è chiamato anche Lieo, dal greco lio, ovvero colui che scioglie da regole e da legami, in particolare dai vincoli della ragione e del costume; infatti, i riti celebrati in onore di Dionisio, secondo il culto perciò detto dionisiaco, erano caratterizzati dalla irriverente e scomposta irrazionalità e frenesia, cosicché spesso sfociavano in orge promiscue ed espressioni oscene. Perciò Bacco non può conoscere Dialettica, in quanto l'ebbrezza che lo contraddistingue insieme ai suoi accoliti è indocile ad ogni norma e ad ogni ragionamento, che sono invece dominio del dialettico. È bensì notevole che egli suggerisca che la disciplina provenga dalla Libia. La Libia, che secondo la accezione antica indica in verità tutto il nord Africa, ospitava al tempo molte scuole di retorica; lo stesso Agostino, prima di recarsi in Italia, ne aveva fondata e diretta una ottenendone il favore del pubblico. "Ansimante Libia", di cui anche Lucano parla nei "Farsaglia", ove evoca "le sabbie bollenti della Libia assetata", "le bestie velenose", di cui parla Bacco, e molti altri irriverenti nomignoli con cui Dialettica è apostrofata nel libro quarto assomigliano in modo particolare agli sferzanti epiteti che Pier Damiani scaglia contro i dialettici ed i seguaci di Aristotele nel "Libro Gomorriano". Bromio giunge persino a supporre che Dialettica sia una venditrice di veleni ed una astutissima ciarlatana della regione marsica, terra di Abruzzo, così chiamata dalla antica popolazione italica dei marsi, di cui era ben nota la propensione alle arti magiche, alla preparazione di veleni ed all'incantamento dei serpenti, forse perché essi stessi favoleggiavano una mitica discendenza dalla maga Circe, come ci riferisce Plinio nel settimo libro della "Storia Naturale", Orazio nella "Satira 17" e Silio Italico nel libro ottavo della "Guerra Punica".
    Tuttavia, poiché Pallade è preoccupata per la irrisione che da ogni dove è scagliata contro Dialettica, ricorda che in verità "quella donna è assolutamente sobria, che è la più acuta e che da nessuno può essere derisa quando presenta le sue asserzioni ed invita così la disciplina a esporsi per fugare ogni dubbio sul suo onore". Entriamo così nella seconda parte della narrazione, in cui Dialettica espone la propria arte, che riguarda la vera essenza della disciplina e fa fede del suo vero onore. Ed, infatti, fin da subito Dialettica svela tutta la grandezza della propria arte e si dimostra essere non egiziana né marsica, ma greca, tanto che può esser detta discendente di Cecrope, antichissimo re ateniese, di cui parla anche Giovenale nelle "Satire" (VI, 187) ed è seguita dalla migliore gioventù ateniese, che ne apprezza la sapienza e l'ingegno. Quintiliano stesso, nel primo libro della "Istituzione", indica, per la scelta di un buon maestro, di accertarsi che lo scolarca sia seguito da un gran numero di giovani che ne ascolti la dottrina, lo rispetti, lo ami e lo tema allo stesso tempo. È certo con questa disposizione di animo che Marziano considera Dialettica; egli infatti ne conosce la dottrina, com'è evidente dalla raffinata esposizione dell'arte nel quarto libro, ne loda spesso l'ingegno e la sapienza ma ne teme la autorità, quando la descrive "ristretti gli occhi con un certo dardeggiare dello sguardo, è temibile perfino prima di parlare".
    È infine introdotta una questione cruciale, ricorrente in molte opere filosofiche in lingua latina e che Marziano introduce utilizzando una sentenza di Catone il censore, qui proferita dal sommo Giove, secondo la quale, essendo la leggerezza dei Greci inferiore alle forze dei discendenti di Romolo per giudicare ed adempiere le virtù, è bene che le scienze, siano espresse "nell'idioma latino", che più si confà al loro alto valore. La questione, riguardante in verità non solo dialettica ma tutte le scienze, è se la lingua latina possa essere utilizzata nelle opere filosofiche al posto del greco, il cui vocabolario scientifico, consolidato grazie alle opere di Platone, Aristotele e dei loro allievi, nonché degli Stoici, era diffusamente impiegato. Dialettica stessa, per la sua origine greca, invitata a parlare in latino, manifesta un certo imbarazzo. L'inadeguatezza della lingua latina al fine di esporre la filosofia e le scienze è d'altronde lamentata, oltre che da Marziano, da numerosi altri autori latini, tanto da essere ormai divenuto un tema pressoché topico in tutte opere in cui sia toccato l'argomento lessicologico. Lucrezio, nel primo libro del poema naturale "non mi sfugge", scrive, "che in versi latini è difficile illustrare gli oscuri ritrovamenti dei greci, specialmente perché occorre trattare molti argomenti con termini nuovi, per la povertà della lingua e la novità della materia"; parimenti Cicerone, nel primo degli "Accademici" e Seneca, nella 58° lettera morale, ove scrive: "che grande povertà di vocaboli abbiamo, anzi che grande indigenza".
    L'indigenza deplorata da Seneca era nella maggior parte risolta attingendo dal vocabolario greco termini da utilizzare tali quali o procedendo a sgradevoli latinizzazioni o coniando nuovi termini, che tuttavia non possedevano né l'efficacia né l'eufonia dei termini greci, come accadde nel caso di dialettica, chiamata "disputatrix" da Quintiliano nel 12° della "Istituzione" o più tardi "sermocinalis scientia". Le compilazioni enciclopediche latine, gli autori delle quali furono costretti a scegliere tra quelle possibilità, sono da considerare esperimenti linguistici e furono per autori successivi, come Marziano, fonti non solo di conoscenze scientifiche, ma anche di lessico specifico. Nell'antichità molto apprezzati erano il poema naturale di Lucrezio o le "Questioni naturali" di Seneca, ma l'opera che certamente godeva di maggiore reputazione, sia per la grande copia di conoscenze scientifiche sia per il vocabolario che metteva a disposizione, era la summa varroniana, i "Disciplinarum Libri".
    Dialettica infatti, che ha come primi maestri Platone, autore del "Cratilo", la prima opera monografica di argomento linguistico, ed Aristotele, autore della prima opera sistematica sulla logica, ricorda del primo l'elevatezza universalmente nota dello stile, con le parole "dorato effluvio" che Cicerone nel secondo degli "Accademici" attribuisce invece all'aureo profluvio dell'eloquenza aristotelica, e del secondo la grandezza della dottrina, ma è verso il celebre poligrafo ed erudito Marco Varrone che ella tributa il più alto onore. All'illustre enciclopedico latino va riconosciuto non solo il merito di aver raccolto in un'unica opera, sebbene non proprio originale, l'intero scibile delle arti liberali, almeno secondo la testimonianza di Cicerone nel primo degli "Accademici" e di Agostino nel sesto della "Città di Dio", ma anche e soprattutto di aver coniato il vocabolario filosofico latino e di avere ordinato le discipline secondo la nuova impostazione della schola. Dice infatti Dialettica: "Se non avessi a disposizione l'erudizione e l'impegno del mio Varrone, celebrato tra le glorie latine, io, donna della nazione dorica, potrei risultare all'esame dell'espressione rotulea estremamente incolta o piuttosto barbara" ed aggiunge, a proposito della sistemazione delle discipline per l'insegnamento, che: "Fu per primo l'impegno di Marco Terenzio a spingermi verso la lingua latina e a offrirmi la possibilità di parlare nelle scuole dell'Ausonia". Ausonia è infatti uno degli antichi nomi dell'Italia e la "lingua di Laurento", con cui Dialettica, per invito del sommo Giove, si appresta ad esporre gli insegnamenti greci, non è che la lingua latina, dal nome della città laziale situata tra Ostia e Lavinio.

    La matematica
    L'aritmetica è, senza dubbio, tra le scienze antiche, la più nitidamente distinta in una parte tecnica, propriamente detta aritmetica, dedita allo studio delle misure di grandezza e del calcolo, ed in una teoretica, che possiamo chiamare aritmologica, dedita invece allo studio della essenza dei numeri in quanto tali ed alla origine e natura numeriche dell'universo. L'esposizione di Aritmetica, solenne ed elegante, concerne l'importanza della materia matematica e degli stessi numeri ed istituisce uno stretto legame tra geometria, aritmetica, astronomia, musica e teologia, fondandosi sulla dottrina pitagorica e platonica. La duplice natura della disciplina appare anche nella sua figura allegorica, che è sia intenta a contare con le dita, dandoci così testimonianza dell'antica pratica del calcolo digitale, spiegato nel trattato di Beda l'anglico sulla "Natura del Tempo", sia promana dalla fronte serie numeriche di raggi che raffigurano la monade prima e la sacra decade, le entità numeriche più sacre nella dottrina neopitagorica e neoplatonica.
    Le autorità antiche onorano distintamente le virtù di ciascuna partizione della scienza matematica. Platone, parlando della scienza dei numeri, pone l'aritmetica a fondamento delle altre discipline del quadrivio; la geometria studia infatti i numeri disposte in figure, piane o solide, l'astronomia a sua volta studia questi numeri configurati in movimento, la musica, infine, si occupa delle diverse proporzioni numeriche che, applicate ai toni secondo i diversi modi, generano l'armonia, divisa in terrena, prodotta dagli strumenti musicali, e celeste, prodotta dall'armonia delle sfere celesti.
    La numerologia, a sua volta, può essere suddivisa in due parti, ovvero nella conoscenza delle entità numeriche, quali la monade, la diade e così via fino alla decade e dei significati filosofici e religiosi di ogni entità, e nello studio della costituzione numerica del cosmo. Secondo la teoria pitagorica, infatti, il numero è considerato costitutivo della realtà; questa teoria si è certamente protratta per tutta l'antichità, tanto che Boezio ne parla ancora nel primo libro sulla "Aritmetica", ove spiega che "tutto ciò che è formato da origini naturali sembra essere formato su base numerica, poiché questo era lo schema nella mente del creatore", ed anche nel terzo della "Consolazione della Filosofia", ove spiega che gli elementi sono connessi tra loro in virtù di proporzioni numeriche; leggiamo infatti: "Tu leghi gli elementi con i numeri, perché il freddo concordi con le fiamme, ed il secco armonizzi con i liquidi, perché il fuoco più puro non voli, o il peso non tragga giù, sprofondando la terra". La numerologia, che ha grande valore nella narrazione di Marziano, in particolare nella esposizione della compatibilità dei valori aritmologici dei nomi di Mercurio e di Filologia, è rappresentata, come vedremo, in entrambe le sue partizioni nella figura allegorica di Aritmetica. In questo settimo libro, Aritmetica, introdotta al senato celeste, presenta un esempio numerologico particolarmente oscuro: intrecciando le dita tra loro, forma il numero 717 e lo rivolge a Giove come saluto; Pallade, dinnanzi alla perplessità di Filosofia sul significato di tale saluto, spiega che la disciplina ha così salutato Giove con il suo proprio nome. Remigio di Auxerre risolve l'enigma del numero tributato come saluto al sommo dio, ricordando che i valori numerologici delle lettere che costituiscono la parola greca arché, il principio, se sommati, danno appunto 717; infatti, H = 8, A = 1, P = 100, X = 600, quindi 8 + 1 + 100 + 600 + 8 = 717.
    Ora vogliamo piuttosto discutere la questione della numerologia cosmica, ovvero della costituzione numerica dei corpi e delle leggi naturali, confrontandola con il compito che la matematica svolge nelle scienze. Sebbene, infatti, Galileo sostenga che l'intero universo è un volume scritto in modo matematico, è indispensabile distinguere la visione neopitagorica da quella della scienza moderna. La scienza pitagorica cerca di leggere la natura in modo matematico perché è convinta che la natura sia costituita di entità matematiche; in tal modo confida che con la lettura matematica della realtà si costituisca un'armonia essenziale tra la natura del conoscente e del conosciuto. Nel racconto di Marziano, infatti, è descritta la veste e la sottoveste di Aritmetica:

    "Copriva poi la sua veste, molteplice e dalle moltissime forme, un certo velo, dal quale erano nascoste tutte le opere della natura. Le dita della vergine inoltre erano in perpetuo movimento e si agitavano in un certo quale brulichio inarrestabile".

    La veste simboleggia i numeri e la loro purezza, mentre la sottoveste invece rappresenta i numeri che costituiscono gli oggetti corporei. La disciplina, infatti, sostiene di avere creato l'universo utilizzando i numeri, che, secondo la dottrina pitagorica che, come ricorda Aristotele nel XIV della "Metafisica", considera le realtà composte di numeri come di loro elementi, sono i principi primi dell'universo e strutturano tutte le realtà, non solo terrestri, ma anche celesti, regolando i movimenti dei corpi celesti secondo precise leggi matematiche; così, rivolgendosi agli dei superni, concretizzati nei corpi celesti, Aritmetica dichiara di essere loro madre.
    La scienza moderna cerca, invece, di leggere la natura in modo matematico, perché riconosce che questo abito, del tutto umano, è utile alla conoscenza; in tal modo, la scienza cerca di dare una veste matematica alla natura, che considera essere costituita in modo proprio, ovvero naturale, e non matematico, come credevano i pitagorici. Non che gli scienziati rinascimentali, tra i quali Galileo e Bacone, si pongano già nell'ambito della concezione moderna, poiché l'ambiente culturale in cui hanno lavorato era informato di neoplatonismo, soprattutto nella forma fiorentina, mirandoliana e ficiniana, particolarmente attenta alla numerologia ed al neopitagorismo. Nondimeno, a partire da queste autorità, l'epistemologia ha cominciato a considerare che la natura sia costituita naturalmente e che possa essere solo letta matematicamente. La scienza antica, d'altronde, era stata in grado di leggere matematicamente solo il cosmo, non la intera realtà naturale, non con risultati scientifici in termini di leggi cosmologiche, ma solo per scopi calcolativi; le leggi naturali, che per gli antichi costituivano la dottrina fisica, erano infatti ottenute per procedimenti logici e dialettici, piuttosto che matematici.
    Tuttavia, nella tarda antichità la conoscenza della partizione tecnica calcolativa della aritmetica era molto diminuita, soprattutto a causa dell'oblio in cui era caduta la scienza geometrica, in particolare trigonometrica, mentre godeva di molto più interesse la partizione teoretica. Questo vale anche per Marziano. È evidente infatti che le fonti del libro settimo, sebbene non siano individualmente note, si riconducono agli "Elementi" di Euclide, in particolare ai libri dal settimo al decimo che concernono l'aritmetica, che forniscono però solo il materiale didattico, che costituisce la minuziosa ma pedante esposizione della disciplina, ma soprattutto alla "Introduzione alla Aritmetica" di Nicomaco di Cerasa, che fornisce la materia filosofica e che informa non solo l'esposizione della figura allegorica di Aritmetica ma l'intera narrazione del "De Nuptiis", a cui può aver contribuito anche il libro quinto, sull'"Aritmetica dei Libri" delle "Discipline" di Varrone, che tratta anche delle virtù dei numeri e della decade pitagorica. La materia scientifica non è ben trattata in questo libro; Marziano, infatti, si mostra molto meno rigoroso di Euclide, preferendo sovente gli esempi numerici alle dimostrazioni aritmetiche, e mostra piuttosto di seguire Nicomaco, che trascura consapevolmente le dimostrazioni per convogliarsi sulla esposizione della dottrina pitagorica sui numeri e la opera del quale è, di conseguenza, più fortunata nella tarda antichità. Dalla concezione pitagorica, egregiamente esposta nella "Introduzione" nicomachea, Marziano accoglie l'istanza della sacralità dei numeri, che pure trionfa nel sistema neoplatonico, finanche in coloro che non furono autori di trattati matematici; i neoplatonici, in particolare Plotino e Proclo, considerano la monade, ovvero l'entità dell'Uno, il primo essere, identico a sé e principio dell'intero universo, entità sacra, il primo e supremo Dio, tanto che i commentatori moderni definiscono henologica la metafisica procliana, non ontologica, com'è quella di Aristotele. Nella dottrina aritmologica neopitagorica, inoltre, l'ebdomade, a fianco della monade e della decade, è considerata sacra e le vengono attribuiti innumerevoli significati simbolici, in particolare per l'interpretazione dei fenomeni naturali, animali, umani e celesti; Aulo Gellio, nel terzo delle "Notti Attiche", rifacendosi ad una opera perduta di Varrone, le "Hebdomades", tratta infatti della forza ed efficacia del numero 7 osservata in molti fenomeni naturali, ed anche Macrobio, nel primo del "Commentario al Sogno di Scipione", tratta della grande importanza di tale numero.
    È chiaro dunque che Marziano, neoplatonico iniziato alle conoscenze aritmologiche, non tratti che del significato filosofico e religioso dei numeri e dell'essenza per sé della entità numerica, piuttosto che dei rapporti matematici. Sebbene secondo il racconto Minerva ordini che l'abaco di Geometria sia lasciato a disposizione di Aritmetica per mostrare che vi sia uno stretto legame che vincola le due discipline e sebbene una parte della esposizione di Aritmetica sia dedicata alla aritmogeometria, la geometria classica, nelle sue forme più compiute e sublimi, come le coniche di Ipparco o la trigonometria di Pappo, è pressoché ignorata o non apprezzata. La cultura latina, d'altronde, non le aveva mai prestato particolare attenzione e confinava l'applicazione matematica alle forme più volgari o al supporto di argomenti e testimonianze in sede forense. Cicerone, nel primo libro del dialogo sull'Oratore, definisce l'aritmetica una scienza oscura, astrusa ed esatta. Quintiliano, per quanto nel decimo capitolo del primo della "Istituzione", riconosca alla geometria [la matematica] le virtù di tenere viva la mente, rendere acuta l'intelligenza e di procurare velocità di apprendimento, nell'esporre alcune sue applicazioni in particolare, la considera di nuovo solo come accessoria alla disputa oratoria, affinché l'oratore non sia titubante nel fare le somme a mente e numerare con le dita, non perché queste pratiche aritmetiche non siano giovevoli di per sé, ma affinché l'oratore non sia giudicato ignorante se non le sa.
    La terminologia tecnica utilizzata da Marziano in questo libro, sorta greca, è conservata anche nella esposizione latina. Vale d'altronde quanto si legge nel dialogo sulla "Natura Divina", ove Cicerone ricorda che molti latini di cultura greca dubitavano che si potessero esprimere in latino quei concetti che avevano appreso dai Greci.
    Consideriamo il nome della disciplina e la sua origine. Al principio del commentario al libro VII del "De Nuptiis", dedicato all'aritmetica, Remigio si dedica al significato della parola "aritmetica" e sugli scopi di quest'arte. "L'arte dei numeri, scrive, si chiama 'Aritmetica' o 'eritmetica'. 'Rithmus' o 'Arithmus', infatti, dal greco si traducono come 'Ritmo' o 'Numero'; il suo nome non è tradotto come quello delle altre scienze, poiché, sebbene parli in latino, tuttavia le arti prendono nome dal modello delle origini greche, poiché sono state inventate in Grecia". La disciplina non aveva infatti ricevuto dai latini un nome proprio che fosse traduzione del nome greco, ma aveva conservato il nome proprio di Aritmetica; al contrario, Geometria, ha in alcuni autori il nome di "permensio terrae", conforme al valore etimologico del nome originale, e Dialettica è chiamata "Disputatrix". Aritmetica, "donna di ammirevole decoro", entra nel senato celeste accompagnata da Pedia. Marziano racconta che lo splendore del volto della disciplina rivela una particolare maestà di nobiltà antichissima, più eccelsa dei natali e dell'origine dello stesso Giove. Come abbiamo detto, l'origine delle arti liberali è posta da Marziano, fedele ad autorità approvate, in epoche precedenti ai miti della "Teogonia" di Esiodo, di Museo o di Epimenide, perciò, in un qualche modo, precedenti ai natali di Giove; secondo gli antichi, solo in tempi successivi, dunque, dopo la nascita del mito, le arti, in particolare la matematica e la astronomia, sarebbero state rivelate da Egizi e Caldei ai Greci più sapienti e da costoro portate in Grecia. Primo di questi sapienti è Talete; Pamfila racconta che, dopo aver appreso la geometria dagli egiziani, per primo egli iscrisse in un cerchio un triangolo rettangolo e sacrificò un bue; Ieronimo di Rodi, nel secondo libro dei suoi "Ricordi Vari", afferma che egli per primo abbia fissate le stagioni e diviso l'anno in 365 giorni e che, pur non avendo seguito nessun maestro, andò in Egitto, come testimonia anche Esichio, ove si intrattenne con i sacerdoti e misurò l'altezza delle piramidi dalla loro ombra; Plutarco, nel suo "Iside e Osiride", afferma che Omero e Talete posero l'acqua come principio di tutte le cose per averlo appreso dagli Egizi, secondo i quali infatti Oceano è Osiride e Tetide è Iside, che tutte le cose alleva e nutre; Giambico narra nella "Vita di Pitagora" che Talete indusse Pitagora a far vela per l'Egitto e ad incontrarsi con i sacerdoti di Menfi e di Diospoli, perché erano stati loro ad istruirlo in quelle discipline per le quali aveva presso la gente il nome di sapiente.
    Vediamo che gli ornamenti del capo di Aritmetica sono integumenta delle entità matematiche, che, procedendo dalla monade, costituiscono la sacra decade e ritornano all'entità primaria monadica. Marziano racconta infatti che Aritmetica appare venerabile in virtù di alcuni particolari meravigliosi del capo, da cui risplendeva un primo candido raggio, che, appena percettibile, partiva dalla fronte e dal quale scaturiva un altro raggio lungo una determinata linea e da questo ne scaturivano un terzo ed un quarto, fino al nono ed alla prima decade; questi "raggi giravano intorno al capo onorevole e venerabile con duplici e triplici varietà cromatiche" e, per quanto scaturissero in una moltitudine incalcolabile, il suo capo li conteneva e li riduceva di nuovo ad uno grazie ad una meravigliosa riduzione. Interpretiamo per primo il testo, poi commentiamo la dottrina platonica dell'uno che vi si trova. Il primo raggio, che Aritmetica effonde dal capo, è figura della monade, che, non numero, è principio di tutte le entità numeriche e di tutti i numeri. Come il raggio è detto impercettibile, così la monade non è percepibile dai sensi e sulla irricettività dell'Uno l'intera scuola platonica è concorde; tuttavia, mentre Alcinoo, Porfirio e Mario Vittorino, sostengono anche l'inconoscibilità dell'Uno ed convengono per questo alla scuola medioplatonica, il neoplatonismo di Plotino e Proclo concepisce la monade come comprensibile solo dall'intelletto, ovvero ne ammette la natura intelligibile.
    Si comprende, dunque, perché Aritmetica è presentata come precedente alla nascita di Giove; la somma divinità olimpica, per quanto non sia il primo dio, giacché, secondo la "Teogonia" di Esiodo, diviene da Crono e Rea, che a loro volta divengono da Oceano e Teti, figli di Urano e Gea, a loro volta figli di Notte, può comunque essere rappresentata dalla monade, che è a sua volta generata dal capo di Aritmetica. Platone, nel quarto delle "Leggi" scrive che il sommo dio possiede il principio, la fine ed il mezzo di tutte le cose che sono ed Aristotele, nel settimo del "Mondo", utilizza la stessa formula dichiarando che "Zeus è la testa, Zeus è il mezzo, da Zeus tutto quanto deriva". Il sommo Giove dunque può essere considerato il principio monadico da cui divengono tutte le entità inferiori e lo stesso essere.
    "L'Uno è principio" è scritto nel sesto delle "Enneadi" ed, allo stesso modo, Proclo afferma che l'Uno è principio supremo e vertice di tutta la realtà; si legge infatti nel terzo della "Teologia Platonica": "A questo punto dobbiamo riprendere la mistica dottrina dell'Uno, per celebrare, procedendo per la nostra via a partire dal Principio Primo, i secondi e i terzi principi del Tutto. Di fatto a tutti quanti gli enti ed agli dei stessi che introducono gli enti preesiste una Causa unica, trascendente ed impartecipabile, ineffabile ed indicibile per ogni conoscenza, in grado di far apparire da sé tutte le altre cose, ma la cui realtà è precedente in modo ineffabile rispetto a tutte le cose; in grado di far rivolgere tutte le cose a sé, ma essendo in assoluto la migliore di tutte. Ebbene, questa Causa, che realmente trascende tutte le altre cause, anche tutte le Enadi delle entità divine, ma che fa sussistere nella loro unità tutti i generi e le processioni degli enti, Socrate, nella "Repubblica", la chiama Bene e per analogia con il sole svela la sua meravigliosa ed inconoscibile superiorità rispetto a tutti gli Intelligibili. Si dimostra che la trascendente ed ineffabile realtà di questo Uno è causa del Tutto". Nella lettera a Dionigi, Platone definisce l'Uno causa di tutte le cose belle, attorno alla quale sono tutte le cose; similmente, nel sesto libro delle "Enneadi", si vede che l'Uno, avendo una tale natura e potenza, è Principio di tutte le cose e superiore al tutto, che diviene dopo di Lui. Nel "Filebo", l'Uno è celebrato come fondamento del tutto, poiché è causa di ogni natura divina; infatti, come si legge nel terzo della "Teologia Platonica", tutti gli dei ottengono di essere dei ad opera del Primo Dio. Dunque, sia che risulti lecito chiamarla fonte della natura divina, sia "Re di tutte le cose", sia "Enade di tutte le Enadi", sia "Bontà generatrice della Verità", sia "Realtà che trascende tutte quante queste cose ed è al di là di tutte le cause, paterne e generatrici", questa Causa è onorata come suprema e generatrice di ogni più sublime entità.
    Si deve dunque concludere che Giove, padre e re delle divinità olimpiche, sia figura della monade. D'altronde questo è confermato nel racconto, riportato nel settimo della "Città di Dio" e pressoché alla lettera da Isidoro di Siviglia nella sezione aritmetica del libro III delle sue "Etimologie", poiché il primo raggio che scaturisce dal capo di Aritmetica e che rappresenta la monade, illumina il capo di Giove, e dalla esposizione della disciplina. È dunque rinnovato dalle stesse parole di Marziano, che, fondandosi sulla dottrina della sussistenza delle idee nella mente di Dio, che troviamo anche nella "Introduzione" di Nicomaco e nel "Didascalico" di Alcinoo, afferma che la monade a buon diritto può essere chiamata padre di tutti gli esseri, ed è Giove, il che invero attesta la possanza generativa di quella forma ideale ed intellettuale.
    Aritmetica, inoltre, illuminata dalla bianchissima luce della fiaccola retta da Pitagora, primo e più illustre conoscitore della essenza delle entità numeriche, inizia la propria esposizione dichiarando di aver generato tutte le realtà dell'universo e di aver fatto germogliare dai propri rami tutte le divinità, popolo degli astri, che siedono nel celeste consesso e di esser perciò nota a tutte loro; ma, rivolgendosi in particolare al sommo Giove, afferma che la principale emanazione lo procreò prima di tutti gli altri, come capostipite della stirpe primordiale, e che dunque egli riconosce la propria natura monadica e primigenia. Dunque, Aritmetica, che già in precedenza era stata detta anteriore persino a Giove, proclama solennemente di essere fonte e principio di colui che è padre degli dei ed è considerato quale monade, in quanto l'aritmetica in sé è prima della entità monadica matematica. Ancora una volta l'identità di Giove con la monade è dimostrata nella esposizione di Aritmetica dedicata alla monade, ove si dice che Giove, identicamente alla monade, che è principio seminale di tutti i numeri, è forza seminale di tutte le realtà; similmente afferma Nicomaco di Gerasa, che, nella "Introduzione all'Aritmetica", identifica la monade come principio seminale con il fuoco divino e con la mente del dio. Ed ancora, al termine della esposizione della monade, Aritmetica spiega che essa fu da alcuni chiamata Concordia e da altri Pietà o Amicizia, "poiché si congiunge in modo tale da non essere scissa in parti", ma conclude che "più correttamente viene denominata Giove, in quanto è al contempo uno, padre e capo degli dei".
    Come dalla monade divengono le entità numeriche successive, così da questo primo raggio sul capo di Aritmetica, si emanava un altro raggio; Marziano denomina l'emanazione del secondo raggio con il verbo "defluire", vocabolo specifico impiegato nella geometria antica per indicare l'estensione di una linea a partire da un determinato punto. Questo secondo raggio è ovviamente integumento della diade, alla quale corrisponde l'entità geometrica della retta, che è a sua volta la prima derivazione od estensione dell'entità geometrica puntuale, corrispondente alla monade. La monade, infatti, è definita come indivisibile, invisibile ed intelligibile. Ricordiamo che la prima definizione degli "Elementi" di Euclide è: "Punto è ciò che non ha parti"; ma, poiché ciò che non si divide è appunto ciò che non ha parti e la monade è appunto indivisibile, entità monadica e punto sono la stessa entità. La prima definizione di Euclide, dunque, si riferisce tanto al punto quanto all'unità, la quale viene a sua volta definita come non avente parti; così si legge nel "Sofista" e nella "Repubblica"; i Pitagorici, tuttavia, distinguono giustamente il punto come unità avente posizione. Similmente, anche Euclide definisce il punto come origine della retta, quindi la monade scaturigine della diade, nella terza definizione, ove si legge "estremi di una linea sono punti"; Aristotele accenna infatti nel primo libro della "Metafisica" che Platone preferiva chiamare il punto "principio della linea". A sua volta, dal secondo raggio ne scaturisce un terzo, ed un quarto dal terzo, e così via fino alla decade. Allo stesso modo vediamo nella sesta definizione del primo degli "Elementi" che "estremi della superficie sono linee" e nella seconda del libro undicesimo che "limiti del solido sono le superfici". L'unità è intelligibile ed insensibile, così come invisibile è il punto ed ineffabile è l'Uno principio dell'intero universo; queste entità non possono essere sensite né conosciute di per sé, ma possono essere intuite solo da manifestazioni macroscopiche, che possono essere intese come derivazioni delle nature prime e più sottili. La perfezione e la priorità dell'Uno allo stesso Essere non permettono che la monade sia sensita, così come il punto, non avendo parti, non può essere visto, né rappresentato, né sensito. La diade, in quanto estensione della monade perfetta ed indivisibile, pur essendo una entità sublime, è tuttavia imperfetta e dunque più sensibile, rappresentabile e più facilmente intelligibile rispetto alla monade da cui diviene, cosicché è raffigurata dalla retta. La triade, a sua volta, è imperfetta rispetto alla diade, dunque ancora più sensibile, rappresentabile ed intelligibile, tanto che è rappresentata dal piano. Parimenti per la tetrade, che è perciò rappresentata dallo spazio. Vediamo dunque che, procedendo dalla monade attraverso entità geometriche meno semplici, dunque meno perfette e più divisibili, procediamo dalla pura intelligibilità e dalla nulla sensibilità proprie della monade perfetta alla minore intelligibilità e maggiore sensibilità delle entità inferiori, da ciò che non ha parti a ciò che ha parti, dall'adimensionale al dimensionale, dall'unitario al molteplice, dal perfetto all'imperfetto, dal semplice al complesso, dall'ultraterreno al naturale, dall'incorporeo al corporeo. Proclo e Plotino, maestri della scuola neoplatonica, pensano che l'universo si dispieghi allo stesso modo, divenendo dall'Uno; essi, infatti, considerano l'Uno entità primaria, fonte di tutte le divinità, e che da esso derivino le Monadi, divinità supreme, e che da queste derivino ipostasi inferiori e, a sua volta, la realtà naturale.
    Marziano dimostra di seguire appieno le dottrine platoniche. Aritmetica infatti afferma:

    "Prima di tutti ci si rivolga alla sacra monade, la quale i principi del numero, associatisi dopo di essa, hanno insegnato che rifulse prima di tutte le cose. E se essa è una forma che inerisce a qualsiasi primo elemento delle realtà esistenti, e se viene prima ciò che enumera, piuttosto che quello che deve essere enumerato, a buon diritto noi veneriamo essa prima di quello stesso che abbiamo detto primo. E non passerò sotto silenzio che, per il fatto che è monade, se si riflette, è essa stessa l'unico uno, e da essa sono procreate tutte le altre realtà, ed essa è la scaturigine di tutti i numeri".

    La monade rifulge prima di tutte le cose; da ciò si deduce che essa rifulge prima dello stesso essere. Marziano attinge questa dottrina sia dal medioplatonismo di Mario Vittorino, sia dal neoplatonismo di Proclo e Porfirio. Alcinoo è però il primo teologo a postulare la assoluta preminenza dell'Uno, circa il quale, nel decimo libro del "Didascalico", ammette la sola possibilità teoretica della teologia negativa; egli afferma, infatti, che l'uno è prima dell'essere, è assoluto, al di sopra della capacità di comprenderlo e di ogni limite, è privo di limiti, senza qualità, senza quantità, senza colore e senza nessuna forma, come è anche scritto nel "Fedro" riguardo al mondo iperuranio. Nella sua trattazione teologica Vittorino riprende alcuni elementi desunti dal "Didascalico" di Alcinoo e nella sua polemica "Contro Ario" spiega che l'Uno è prima di tutto; vi scrive infatti che prima di tutte le cose "che sono vere", vi è l'Uno, "ovvero l'unità, ovvero lo stesso uno, prima che gli fosse l'essere" e conclude che Egli "deve essere chiamato e concepito come l'uno solo, l'uno semplice, l'uno anteriore allo stesso essere, e soprattutto prima di tutti gli inferiori, prima di ogni esistenza. Plotino, a sua volta, nel sesto libro delle "Enneadi", afferma che l'Essere deriva dall'Uno ed è necessario che, se questo è uno, sia numero, che l'Uno, avendo una tale natura e potenza, è Principio di tutte le cose e superiore ad esse, che vengono dopo di Lui, e che l'Uno non è altro che sé stesso, e necessariamente, poiché Egli è principio di ogni necessità. Parimenti, nel settimo del "De Nuptiis", si dice che essa, la monade, è prima delle realtà esistenti e che, una volta distrutte queste, non scompare e non può così che essere perpetua; e come Plotino afferma che tutte le sostanze sono une in virtù della loro partecipazione al supremo Uno, giacché si commensurano alla Sua perfetta ed indivisibile entità, così Marziano spiega che "in relazione al suo modello, si parla di un solo dio, di un solo cielo, di un unico sole e di un'unica luna e anche dei quattro elementi, in quanto sussistono singolarmente. Circa la perpetuità della monade, Remigio di Auxerre distingue due modi di chiamare l'eterno, un primo per Dio ed un secondo per il creato; nel primo modo si dice eterno Dio, che non solo è eterno ma che è Esso stesso che non ha ricevuto da qualcun altro, ma solo da Sé stesso, l'essere eterno. Questa è l'eternità propria della monade.
    Il sistema metafisico esposto da Aritmetica nel VII libro del "De Nuptiis" non è dunque ontologico, ma "henologico", in quanto a Principio dell'essere di tutte le cose non è posto lo stesso Essere, ma l'Uno. In Aristotele, invece, la questione dell'Uno è intesa in modo diverso; nella "Metafisica", il Filosofo parla dell'Uno, ma come misura della conoscenza, e quindi lo considera come successivo all'Essere. Al contrario, il principio metafisico che informa la teologia della tarda antichità ed anche la narrazione teologica di Marziano è "henologico", non "ontologico" come invece è per Aristotele. Il fondamento della dottrina henologica e della dottrina ontologica sono molto antichi e risalgono rispettivamente ad Eraclito, che nel poema naturale afferma "dall'Uno tutte le cose", e a Parmenide. La metafisica henologica costituisce il fondamento delle "dottrine non scritte" di Platone e, dunque, del neoplatonismo. Nei primi teoremi degli "Elementi di Teologia", Proclo definisce l'"uno" concetto originario e quindi "primo" in modo assoluto, ossia non deducibile da altro; il principio originario è, dunque, la "unità", poiché nessuna molteplicità sarebbe possibile né pensabile senza prima supporre una partecipazione della molteplicità stessa alla unità, giacché la stessa molteplicità è una nel suo insieme ed uno è ciascuno dei suoi elementi. Si è mostrato, dunque, quanto postulato in precedenza, ovvero che l'unità è principio primo ed ogni molteplicità le è posteriore e dipendente; l'Uno è ciò da cui tutto deriva e a cui tutto tende, come si legge anche nel prologo del "Commento" di Bertoldo di Moosburgo agli "Elementi di Teologia" di Proclo, in quanto fa essere tutte le cose rendendole unitarie esse stesse, unificandole e così "rendendole buone e perfette".
    I raggi che incoronano Aritmetica giungono uno a uno, per emanazioni successive, fino alla decade, considerata sacra dai Pitagorici perché comprensiva di tutti i numeri fondamentali. La prima decade è chiamata "decuriatus primus", ovvero "il primo numero costituito da dieci unità". Remigio spiega che la moltiplicazione dei raggi e la loro graduale diminuzione è propria della natura dei numeri e conclude che "come i numeri si accrescono all'infinito, così diminuiscono ancora fino all'unità". D'altronde secondo Proclo ogni entità che non sia l'Uno soggiace ad una legge circolare triadica costituita dalla "manenza", il rimanere o permanere in sé, la "processione", l'uscire dal principio", ed il "ritorno" o "conversione", il ricongiungimento o ritorno al principio; così è anche per le entità matematiche e metafisiche, che, generate dalla infinita potenza dell'Uno, escono da esso ed in esso ritornano secondo una legge eterna ed immutabile. La monade, dunque, è sia principio sia fine dei numeri; è principio quando essi divengono da essa crescendo, è fine o termine quando ritornano ad essa diminuendo.

    La astronomia
    Delle sette arti liberali, l'astronomia è di certo la più apprezzata e la più scientificamente sviluppata nel mondo classico fin dalla più remota antichità. Concorsero infatti all'accrescimento della scienza astronomica sia le scoperte matematico - geometriche sia molte dottrine filosofiche, in particolare di indirizzo platonico, ma anche peripatetiche e stoiche, che consideravano lo studio degli astri un mezzo privilegiato per giungere all'intellezione delle realtà più elevate e sublimi, chiamate appunto "celesti e divine". Le stesse divinità assise nel senato celeste, meravigliate per la nobiltà e l'altezza di tanta scienza, tutti gli dei del cielo, della terra e del mare, le porgono il più rispettoso omaggio e le offrono un seggio celeste da cui ella possa esporre tutta la sua sapienza.
    È senza dubbio per questi motivi che il libro VIII del "De Nuptiis", seppure sia il più breve in quanto giunto a noi incompiuto e sebbene contenga gli argomenti consueti dei manuali del tempo, appare come il più ordinato ed il meglio costruito e come certamente il più celebre dei libri del quadrivio marzianeo. È da considerare, tuttavia, che Marziano non vi adopera un lessico tecnico e scientifico, poiché predilige uno stile lessicalmente sovrabbondante e sintatticamente artificioso. Sia nelle parti di fabula, sia in quelle di esposizione delle discipline, egli si serve di ricercate difficoltà stilistiche che rendono ardua al lettore la comprensione.
    Marziano stesso mostra una profonda riverenza per la astronomia, in particolare per l'omaggio che tributa ai rappresentanti più illustri di questa scienza, Eratostene, Tolomeo ed Ipparco, le scoperte scientifiche dei quali, come la precessione degli equinozi scoperta da Ipparco o il metodo di misura della circonferenza della terra di Eratostene, non sono però citate. È infatti chiaro, per la struttura e gli argomenti esposti nel libro, che le conoscenze astronomiche di Marziano fossero tratte, piuttosto che da trattati specifici, da manuali, compilazioni, estratti o riassunti di quegli stessi trattati. D'altra parte lo stesso commentario di Calcidio al "Timeo" di Platone, scritto dal platonico cristiano su invito di Ossio, vescovo di Cordova, considerato summa dell'intera cosmologia e testo fondamentale per l'insegnamento, non è neppure strutturato come un trattato di astronomia, ma sembra essere tratto dall'opera "Sull'Universo", attribuita ad Aristotele, od una libera traduzione del commentario di Elio Teone di Smirne o del peripatetico Adrasto, che contiene un'ampia trattazione della cosmologia platonica, è troppo tecnica e articolata per essere apprezzata nella tarda antichità e nell'alto medioevo.
    Ai tempi di Marziano, in quel crepuscolo dell'età classica in cui le dottrine speculative, come il neoplatonismo, il neopitagorismo e il peripatetismo, hanno ormai preso il sopravvento sulle dottrine fisiche, l'astronomia è più apprezzata per le sue componenti filosofiche e teologiche piuttosto che matematiche o geometriche, giacché è ormai considerata una via privilegiata per lo studio della natura divina. Il modo matematico di fare astronomia era infatti divenuto troppo complesso per poter essere apprezzato, compreso ed ampliato da filosofi la cui speculazione matematica volgeva piuttosto alla aritmologia ed alla metafisica dei numeri, che allo studio di nuovi teoremi per il calcolo o la misura. Di conseguenza, l'astronomia secondo Marziano non è l'arte liberale che si occupa dello studio dei fenomeni astrali, ma che cerca di compendiare la conoscenza astronomica, considerata come scibile già dato dagli antichi e già intero e completo, in un disegno filosofico e teologico di più ampio respiro. Questo spiega, per ciò che riguarda la composizione delle opere, la grande quantità e l'ampiezza delle digressioni filosofiche che si diramano a partire dalle semplici nozioni astronomiche e che vediamo soprattutto in Macrobio. Si deve ricordare inoltre che il trattato di argomento scientifico, filosofico e cosmologico tenuto in più gran conto nella antichità, perlopiù tarda, è il dialogo platonico "Timeo", particolarmente oscuro e complesso per ammissione di stessi filosofi neoplatonici, che non è certamente un trattato astronomico, ma in verità un'opera filosofica, scientifica e teologica allo stesso tempo. Macrobio, ad esempio, nel secondo del "Commentario al Sogno di Scipione", ricorda alcuni libri in cui Porfirio "infonde un poco di luce nelle oscurità del 'Timeo'". L'opera, considerata una summa delle dottrine filosofiche e scientifiche, è certamente il dialogo platonico più letto, diffuso ed influente. Lo stesso Aristotele cita il "Timeo" molto più di tutte le altre opere di Platone. Gli accademici interpretarono alla luce delle dottrine esposte nel dialogo l'intero pensiero del maestro Platone, come si vede nel "Didascalico" di Alcinoo. Il neoplatonico Proclo vi dedicò molta attenzione e ne compose un vasto commentario, spesso citato da Macrobio, e usava ripetere che tra tutti i libri antichi avrebbe voluto salvare solo gli "Oracoli Caldaici", considerati divinamente ispirati, ed il "Timeo". Filone di Alessandria utilizzò ampiamente questo dialogo per una interpretazione filosofica della Genesi. Calcidio nel IV secolo ne scrisse una traduzione latina, di certo più fortunata di quella redatta da Cicerone, ed un commentario rimasto celebre per tutto il medioevo. Gli stessi padri cristiani e Boezio lo tennero certamente in precipua considerazione.
    Ciò che dunque di questa scienza è possibile trovare nel libro ottavo, oltre alle canoniche nozioni manualistiche, non è che ciò che, di natura filosofica e perlopiù mutuata da Aristotele, come la circolarità del moto o la perfezione e la leggerezza della materia celeste, piuttosto che matematica, è utile e conforme alla ormai dominante visione platonica dell'universo. È certo, dunque, che nel tempo in cui il "De Nuptiis" fu scritto l'astronomia continuava a suscitare interesse tra gli studiosi e conservava il posto di preminenza nel quadrivio, ma ormai come dottrina teologica e, nondimeno, confusa, forse più di quanto non fosse stato negli autori precedenti, con la teologia razionale, che, fondata dal Filosofo, veniva resa in quei tempi magnifica dai neoplatonici Plotino e Proclo e per la prima volta cristiana da Boezio. Queste due teologie, la teologia astrale e la teologia razionale, che appaiono ancora non distinte nel "Compendio di Teologia Greca" di Anneo Cornuto, non sono infatti che due vie per l'indagine razionale delle realtà intelligibili e più alte, alla luce delle consolidate conoscenze filosofiche ricevute in dote dagli antichi, che Ugo di San Vittore chiamerà "teologia mondana", contrapponendola alla "teologia divina", fondata sul dato rivelato.
    Lo stesso Remigio di Auxerre, che al principio del commentario al libro VIII espone il significato dei nomi dell'arte astronomica, precisando che essa è chiamata astrologia, secondo che sia intesa come conoscenza degli astri secondo natura, ossia di quali costellazioni sorgono e tramontano, od astronomia, secondo che sia intesa come conoscenza della legge degli astri, presenta, come teologo cristiano, l'essenza della disciplina, commentando la espressione "madre degli dei". Scrive, infatti, che l'astronomia è detta "genitrice dei celesti" perché essa sa come il cosmo è disposto in numero, misura e peso dalla azione creante di Dio, secondo quanto si legge nella Sapienza. In tal senso, la astronomia è la sapienza che, coeterna a Dio, sostanza una e semplicissima, è norma di generazione e costituzione del cosmo e, dunque, dei celesti.
    L'opera da cui il "De Nuptiis" attinge è, come sempre, i "Disciplinarum Libri" di Varrone, il libro dei quali trattante dell'astronomia sembra però non essere conosciuto direttamente da Marziano, che, indicando l'etimologia del termine "stella" nel verbo "stare", la stessa qual definizione Cassiodoro ci informa essere presente nell'opera varroniana, la attribuisce ad "un certo Romano a me non conosciuto". La preferenza di Marziano per l'opera varroniana non è però in questo caso dovuta alla quantità di lessico scientifico, poiché nel libro VIII del "De Nuptiis" Marziano impiega termini greci piuttosto che latini e senza traslitterarli, quanto all'ordine della materia che essa provvede. Infatti, il libro sulla astronomia doveva essere primo fra le tante trattazioni manualistiche latine della materia per ordine, struttura ed organizzazione. Varrone, a sua volta, si fonda su un trattato più strutturato e completo, l'Introduzione ai Fenomeni, di uno studioso del I secondo a.C., Geminio, con il quale il libro VIII ha in comune la definizione dei termini, la rigorosa classificazione, la esposizione dei concetti definiti, oppure sull'opera di Posidonio, da molti considerato alla base dei "Disciplinarum Libri", o di Elio Teone o di Cleomede. Questo indica comunque che la fonte del libro sull'astronomia è in verità un'opera greca, ad esempio un manuale per l'esposizione scolastica.
    È tuttavia certo che Marziano si sia rivolto, quantunque in misura minore, anche all'opera di altri compilatori latini, come al celebre poema astronomico di Manilio, cosmografo e filosofo stoico di età augustea, alla "Storia Naturale" di Plinio il Vecchio, la cui trattazione è sovente disorganizzata e pesante, al poema sul Giorno Natalizio di Censorino, ai "Saturnali" ed al "Commentario al Sogno di Scipione" di Macrobio, che tuttavia è in questo caso povero di contenuti e molto dispersivo, ricco di digressioni.
    Astronomia, al suo ingresso nel senato celeste, entra circondata da luce celeste radiale, che illumina di riflesso persino la trama del cielo più lontano, e racchiusa da una sfera cava di fuoco trasparente che rotola girando adagio di un dolce moto circolare. In questa narrazione ricorrono gli elementi canonici della fisica aristotelica. Per prima, la luce celeste e radiale è simbolo della trasparenza, cristallinità e incorruttibilità delle realtà celesti, priori e perfette rispetto a quelle mondane; per secondo, il fuoco è il più leggero dei quattro elementi ed è l'elemento naturale che segue l'elemento celeste, l'etere. Infatti, astronomia è cinta dapprima da una sostanza eterea che è poi circondata dal fuoco. Le forme sono naturalmente sferiche ed animate da un incessante e tenue moto circolare; i luoghi puntuali circolari, infatti, sono considerati priori e perfetti dal Filosofo e in modo particolare da Proclo, come si legge nel Commento al primo libro degli "Elementi", riguardo alle forme sferiche, e negli Elementi di Fisica, riguardo al moto circolare. Si legge, infatti, nel secondo libro "Del Cielo" che "la forma del cielo deve essere poi di necessità sferica: è questa infatti la figura che più si adatta al suo essere, e che in ordine di natura è prima". Similmente, si legge nel "Timeo" di Platone che Dio, volendo dare al mondo una forma che gli fosse conveniente ed affine, "lo tornì rotondo, in forma di sfera che si stende dal centro agli estremi in modo eguale ad ogni parte, ossia la più perfetta di tutte le forme e la più simile a sé medesima, ritenendo il simile più bello del dissimile".
    Gli dei, specialmente i dispensatori del fato, illuminati dallo splendore della luce, brillano a loro volta e rivelano la loro mobilissima natura, il loro moto perfetto e le proprietà ignote. È noto, infatti, che la astronomia antica fosse particolarmente favorita dall'arte divinatoria sia per il calcolo delle orbite che per la previsione della posizione degli astri e che la stessa cosmologia tolemaica fosse più precisa della teoria eliocentrica per il computo della posizione dei pianeti e, di conseguenza, per la previsione degli oroscopi. Riconosciamo che, presso gli antichi, erano considerati due modi con cui il moto dei pianeti influenzasse il mondo terreno, o sublunare. Secondo Aristotele, come si legge nell'ottavo della "Fisica", movendo dai postulati secondo i quali ogni movimento deva essere generato da un movimento precedente ed ogni regresso non possa andare all'infinito, il movimento perfetto, incorruttibile ed incessante dei pianeti, a loro volta mossi da un primo motore, è origine del moto sublunare. Nel quinto capitolo di quel libro, infatti, si legge che una qualche cosa in moto si muove o per opera del motore o per una pluralità di intermedi; inoltre, poiché il regresso all'infinito è impossibile, il Filosofo afferma che "necessariamente c'è dapprima qualcosa che muove sé stessa mediante sé stessa" e che "una buona volta si deve pur giungere ad un motore di tal genere". La tradizione mitica, che concepisce le divinità come antropomorfe ed antropopsiche, in quanto accomunate all'uomo dalla forza e dalla irrefrenabilità delle passioni, dei desideri e dall'uso della medesima ragione, insegna che il moto dei pianeti, concrezioni celesti delle divinità olimpiche, agisce sulle azioni, sulle scelte degli animali e dell'uomo e, dunque, sugli eventi naturali e storici, ovviamente in modo conforme alle caratteristiche morali archetipe che ciascun pianeta rappresenta. Dice infatti l'ancella nel racconto marzianeo: "E infatti non credo che sia segno di verecondia e di correttezza spiegare i loro propri movimenti e percorsi a quelli che appunto si muovono e volere insegnare agli dei quello che sono essi stessi a fare". Sulla antica tradizione della influenza degli astri parla anche Plotino, nel secondo delle "Enneadi"; vi racconta, infatti, che "si dice che i pianeti, movendosi, producono non solo la povertà e la ricchezza, la salute e la malattia, ma anche la bruttezza e la bellezza, e ciò che più vale, i vizi e le virtù e le azioni che in ogni occasione ne dipendono, come se i pianeti fossero irritati contro gli uomini per quelle cose in cui questi non hanno alcun torto, appunto perché costretti da loro a quelle disposizioni in cui si trovano", ed anche che "cosa importantissima, si dice che alcuni pianeti siano cattivi ed altri siano buoni e che essi inoltre producano effetti diversi a seconda che si guardino o no tra loro". È tuttavia evidente che in quei tempi queste credenze, scaturendo dalla tradizione mitica, fossero almeno in parte ritenute vere dai filosofi. Lo stesso Plotino, pur dichiarando di non credere che gli astri causino gli eventi terreni, ammette che essi li possano annunciare. Si legge infatti nel medesimo passo: "Abbiamo detto che il movimento degli astri annuncia i singoli avvenimenti che accadranno, ma che non li causa, come è opinione di molti", e poco dopo che "Gli astri soltanto indicano gli eventi futuri. Pensiamo dunque che gli astri siano come lettere che si scrivano in ogni istante nel cielo, o meglio, che già scritte e moventesi, le quali pur compiendo un'altra funziona abbiamo anche la facoltà di significare".
    Astronomia si presenta ricoperta di gemme e di occhi su tutto il corpo, coronata da un diadema stellato che raccoglie i capelli scintillanti; ha poi delle ali, fitte d'oro, che si increspano in penne di vetro e le fungono da remi per volare per l'intero universo. Nella mano sinistra reca la misura di un cubito, nella destra un libro su cui sono raffigurati e commensurati i percorsi degli dei, personificati dai loro pianeti, designati già in precedenza mediante cardini dai diversi colori.
    L'ancella espone così la propria antichissima origine. Come le altre arti, anche Astronomia è sorta in Egitto, ma è stata conservata più gelosamente e più lungamente delle sorelle come sapere occulto dai sacerdoti più sapienti, che la hanno nel modo più riverente tenuta prigioniera affinché non fosse "divulgata da una loquela profana" in penetrali per quarantamila anni, "attraverso gli immensi spazi delle generazioni". Secondo i racconti del "De Nuptiis", così come secondo la testimonianza dei miti filosofici greci, tutte le scienze antiche sono nate in Egitto. Secondo le stesse testimonianze più antiche, tuttavia, l'astronomia, ancor prima della matematica e della medicina, è l'arte che i sapienti sacerdoti egizi hanno allevato con maggior cura e devozione. I frammenti che narrano la vita dei filosofi più antichi, infatti, riportano che molti di essi, in particolare i fisici precedenti a Socrate, si recarono presso i popoli Egizi e Caldei per essere iniziati dai sacerdoti alle dottrine astronomiche, matematiche e mediche, considerate sacre, per la pratica che conferivano con oggetti comunicanti direttamente con le divinità. Si ricorda, ad esempio, il mito di Talete, ma anche il racconto, ben più attendibile, che riguarda i viaggi di Platone presso gli Egizi alla ricerca della conoscenza delle arti e dei racconti più antichi, come gli oracoli, venerati dalla scuola platonica. Colui che, tuttavia, tra gli storici, ci dà ragguagli più preziosi riguardo alla conservazione delle dottrine misteriche presso gli Egizi è certamente Erodoto; in particolare, nel secondo libro delle "Storie", Erodoto ci informa delle pratiche teurgiche dei sacerdoti, dei loro studi approfonditi sulla storia di uomini i cui nomi sono introdotti nel mito da Omero ed Esiodo e della loro osservazione, studio ed interpretazione dei moti celesti. Infine, a seguito della mitica caduta del diluvio, che tutto travolse, e della ricostruzione, di cui sia Platone che le Sacre Scritture ci raccontano, Astronomia giunse, errabonda, presso i Greci e ad Atene.
    Il moto circolare dei pianeti è definito perfetto dal Filosofo. Nel primo libro del trattato sul "Cielo", infatti, egli spiega che "il moto circolare è per necessità eterno" e che "è conformemente a ragione che il primo cielo si muove di moto incessante". Aristotele spiega anche che tutti questi fenomeni osservati, possono essere spiegati con argomenti della filosofia prima, poiché conformi alla ragione. D'altronde, secondo il Filosofo, il principio da cui dipendono il cielo e la natura, come si legge nel dodicesimo libro della "Metafisica", è vita nella sua forma più eccellente e perfetta, ovvero la vita del puro pensiero, dell'attività contemplativa. Questo primo motore immobile che anima l'universo o, come canta il poeta, "muove il sole e le altre stelle", è, secondo Aristotele, Vita, perché l'attività della Intelligenza è vita ottima ed eterna e questo motore è appunto quella attività, quindi è lo stesso Dio. Similmente scrivono i neoplatonici. Dice infatti Plotino nel secondo delle "Enneadi" che il cielo si muove di movimento circolare perché è psichico, è il movimento della coscienza, della riflessione e della vita che ritorna su sé stessa e che non esce mai da sé e non passa ad altro appunto perché deve abbracciare tutto in sé. Mentre il movimento naturale sarebbe la linea retta, Plotino spiega che è la Anima universale a determinare il movimento, senza tuttavia affaticarsi mai, poiché essa stessa è l'ordinamento della natura. Egli afferma, inoltre, che "l'intelligenza è mossa dal Bene e il cosmo la imita con il suo moto circolare" e che "così si muove l'Intelligenza; essa, infatti, si muove pur rimanendo immobile, poiché gira intorno Lui, e così, dunque, l'universo si muove circolarmente e pure rimane sempre al medesimo luogo. Allo stesso modo, Proclo, nel primo libro della "Teologia Platonica" scrive che si deve affidare il cielo nella sua interezza al movimento circolare, che si ripete ciclicamente sempre secondo la medesima proporzione ed allo stesso identico modo.
    Dunque, sia secondo Platone, che secondo Aristotele, nonché secondo le loro scuole, l'universo è sferico e di natura perfetta e divina. La migliore spiegazione è data da Proclo nella medesima opera, ove si legge che l'anima universale cosmica è "l'eternità immortale e divina, ciò che è immortale in modo primario e non per partecipazione, principio causale di immortalità e della condizione di necessità, vita che ha il carattere del sempre e che trabocca dalla potenza della condizione di eternità e che la concede alle altre entità nella misura in cui ciascuna è per natura atta a riceverla".
    La costituzione generale dell'universo ivi descritta da Astronomia è perfettamente conforme alla dottrina della fisica celeste che troviamo in numerose compilazioni, quali la "Storia Naturale" di Plinio, nel secondo libro della quale si tratta della sfericità dell'universo, ove si legge "la sua forma è configurata nell'orbe di una sfera perfetta", e dei quattro elementi elencati nell'ordine discendente fuoco, spirito - aria, acqua e terra, o il "Timeo" di Platone, che espone la composizione del cosmo con i quattro elementi e la sua sfericità, ove si legge "ora, invece, conveniva che il corpo dell'universo fosse solido" e "per questo, il dio, pose acqua ed aria in mezzo tra fuoco e terra". Questa dottrina è confermata anche da Cicerone, che ne parla nel secondo libro della "Natura degli Dei", da Servio, nel sesto del suo "Commentario all'Eneide", e da Diogene Laerzio, che ne riferisce nel settimo libro delle "Vite dei Filosofi".
    È bene discutere un poco la questione della centralità della terra, in particolare secondo l'opinione dei dotti teologi, che ritengono la centralità dell'uomo nell'universo coerente con la sua costituzione pratica, ovvero morale, che è la più bassa tra le nature create dotate di ragione. Remigio di Auxerre scrive infatti nel commentario al libro VIII del "De Nuptiis" che la terra è conglobata in globo, ossia costituita da una sfera rotonda e circoscritta da tre elementi, e non si muove, mentre gli altri corpi si muovono, volgendo in eterno moto. Nel "luogo terreno" confina la quarta parte dell'universo, cioè la terra, che è stabilita in quiete e collocata nel punto più basso perché inferiore a tutti gli elementi. Come la terra è inferiore a tutti gli altri elementi che compongono l'universo, così l'uomo, nella cui essenza la caduta originale ha palesato la connaturalità del peccato, è inferiore a tutte le altre nature razionali, ovvero agli angeli ed alla Trinità; ciò che i teologi provano sia secondo fisica, mostrando che la sostanza umana è conformata in un corpo pesante ed è dunque tratta verso il centro di massa, sia secondo scienza prima, mostrando che tale sostanza è costituita da forma commista a materia ed è dunque essenzialmente inferiore alle nature del cielo, costituite di sola forma, sia, infine, secondo scienza pratica, mostrando che nella medesima sostanza è connaturale il peccato. È dunque errata la manualistica opinione secondo la quale la cosmologia eliocentrica sarebbe avversata dai teologi, a vantaggio dunque della cosmologia geocentrica, perché, togliendo l'uomo dal centro dell'universo, gli farebbe perdere la posizione di privilegio di cui egli gode nell'opere della creazione. In verità, la cosmologia eliocentrica, levando l'uomo dal centro dell'universo, non gli fa perdere una posizione di privilegio, ma anzi lo allontana dalla sua dimensione naturale necessaria e, ciò che è peggio, dalla dimensione del peccato sancita nella Genesi. I teologi pongono dunque l'uomo al centro del mondo sia perché così raccontano le Scritture, sia perché questa infima posizione è coerente alla sua natura. La teoria della imperfezione e corruttibilità del mondo sublunare è, peraltro, opinione affermata già prima della teologia cristiana e non solo dalla scuola peripatetica. Si legge infatti nel secondo delle "Enneadi" che "il cielo e tutto ciò che è in esso ha l'eternità individuale e, dunque, specifica, mentre le cose che sono sotto la sfera della luna hanno solo quella specifica, poiché sono individualmente corruttibili e solo la loro specie si preserva. Anche Marziano conferma la tesi, allorchè spiega che l'astronomia, la più celeste e divina delle arti, non sarebbe dovuta venire a conoscenza degli uomini, proprio a cagione della "sozzura delle umane preoccupazioni".


    PARTE TERZA - POETICA E RETORICA DEL "DE NUPTIS"

    CAPITOLO PRIMO - LA POETICA DI MARZIANO

    Nella forma letteraria del "De Nuptiis", satira menippea in prosimetro che ritroviamo nelle "Satire" di Varrone, nel "Satiricon" di Petronio e nella "Apocolocintosis" di Seneca, la poesia ha un compito molto importante. I metri più utilizzati sono l'esametro dattilico, il verso epico, il distico elegiaco, con un esametro ed un pentametro, ed il senario giambico usato per le parti dialogiche o discorsive.
    Nonostante Marziano sia un ottimo conoscitore della metrica classica, talvolta mostra di conoscere modelli nuovi, conformi alla metrica accentuativa delle lingue romanze. Nondimeno, le preferenze poetiche di Marziano vanno, come si vede nel testo, soprattutto a Virgilio ed Ovidio, gli autori più citati, ma anche a Lucano e Cicerone; tra gli autori più contemporanei spicca Claudiano.

    CAPITOLO SECONDO - ALLEGORIA ED INTEGUMENTO

    Il grande uso, la raffinatezza e la difficoltà degli artifici retorici è di certo la caratteristica peculiare dell'opera e la distingue da tutti gli altri esempi di enciclopedismo di quel periodo. Ciò è tanto più importante quanto più si considera che la natura dei simboli e la loro presenza nel testo è connessa all'intento dell'opera ed al principio filosofico che la anima. La giustificazione metafisica della simbologia linguistica è contenuta nella dottrina neoplatonica della sostanza, secondo la quale la materia è involucro e velame della forma che, sebbene universale, è rinchiusa nel vincolo della sostanza individuale. Il rapporto tra dominio reale e dominio linguistico è ben espresso dal rapporto, che Tommaso di Sutton chiama "proporzione speculativa", secondo cui la parola (ed il simbolo) sta al concetto come la materia sta alla forma. La parola non costituisce dunque un'unità indissolubile con il concetto che racchiude, ma, dal momento che è usata per parlare di realtà celesti e divine, diviene allegoria ed è piuttosto uno scrigno che ravvolge le sublimi idee e che può anche essere aperto con la giusta chiave ermeneutica. Nonostante la capacità dei poeti di rappresentare in modo obliquo le realtà universali fosse avversata dallo stesso Platone, l'intera produzione letteraria e filosofica del neoplatonismo non può prescindere dalle tecniche retoriche e dal denso simbolismo, peculiarità che di certo fecero innamorare la scuola di Chartres al "De Nuptiis".
    Per prima cosa occorre distinguere tra allegoria ed integumento. I recipienti figurativi o simbolici, gli involucri delle idee, sono dette allegoria od integumento a seconda che siano rispettivamente presenti nei testi sacri o in testi di autori classici o pagani. La distinzione tra le figure non riguarda dunque la loro natura retorica, ma solo la materia a cui sono applicate, cosicché l'artificio retorico legato alla teologia è allegoria (del "senso parabolico" come strumento retorico per le sacre scritture parla Alessandro di Hales nella introduzione alla sua "Summa"), quello connesso alla filosofia è integumento. Nel "De Nuptiis" è dunque integumento la rappresentazione simbolica delle discipline mentre è allegoria la presentazione del senato celeste, che è disposto, similmente al paradiso, come una gerarchia che fa capo al sommo dio, Giove.
    La rappresentazione della divinità e dell'ordine universale mediante allegorie è, tuttavia, ereditata della teoria della inconoscibilità di dio, che troviamo a fondamento del medioplatonismo, a cui, in questo modo, Marziano talvolta attinge. Eloquenti sono al proposito i versi del colto poeta pagano Tiberiano, medioplatonico ispiratosi a Porfirio, che in un carme scrive:

    "Essere onnipotente, che la volta del cielo, antica di anni, guarda con riverenza, che, sempre uno sotto mille attributi, nessuno potrà misurare col numero e col tempo, sii ora invocato, se con qualche nome conviene invocarti, con quel nome ignoto, di cui santo ti allieti, per cui trema la terra nella sua vastità e le stelle vaganti arrestano il loro rapido corso".

    Nel secondo libro del "De Nuptiis" si deve notare una invocazione molto simile rivolta alla divinità trascendente, "O alta forza del padre ignoto". Marziano, dunque, conserva la specifica invocazione al dio "ignoto" come "padre", proprio come si trova nei sistemi gnostico platonici già dall'epoca più antica.
    Il testo marzianeo non è tuttavia il primo esempio letterario di narrazione fortemente simbolica, in cui cioè i fatti naturali e storici vengono in un sol tempo interpretati fisicamente, o filosoficamente, ed allegoricamente, o moralmente, ed il commento al testo espone i misteri della sapienza naturale o teologica. Il rapporto tra conoscenza ed integumento risale alla prima filosofia greca. Eraclito, per primo in modo tanto consapevole, unifica l'esposizione della natura delle cose ed il loro correlativo mistero sapienziale coniando la celebre sentenza, secondo cui "la natura ama nascondersi". Anche Macrobio, nel suo Commentario al "Somnium Scipionis" di Cicerone, afferma che la natura non ama una aperta esposizione di sé e delle sue verità, ma cela il suo significato ai sensi degli uomini volgari ed espone invece i suoi misteri ai sapienti in forma di racconto favoloso.
    A Macrobio, dunque, il merito di aver reso riconosciuto il convincimento secondo cui una modalità espressiva figurativa e segreta allo stesso tempo sarebbe stata caratteristica dei grandi filosofi del passato, dunque della vera filosofia, e si sarebbe resa necessaria per l'emulazione delle autorità. La modalità espressiva riguarda sia le realtà naturali che le realtà divine; se la natura ama nascondersi, dunque, la filosofia deve fare altrettanto.
    La rinascita della indagine intellettuale, della spiegazione razionale del mondo fisico, accompagnata e sostenuta dall'artificio dell'integumento, è senza dubbio riconducibile alla lettura del "Timeo" di Platone e del "De Nuptiis" di Marziano, considerate le enciclopedie dell'intero sapere scientifico e fisico, contenenti molti miti e narrazioni allegoriche. Platone, nel principio dell'opera, asserisce che nella ricerca delle cause naturali non è bene condurre un'indagine logica secondo una epistemologia rigorosa, ma piuttosto ricercare una spiegazione o un racconto verosimile.
    Leggiamo, infatti, nel terzo libro del "De Nuptiis" che "nuovamente la Camena appresta, in un libretto piccolo, gioielli, e vuole in primo luogo presentare narrazioni ammantate di finzioni". Qui Marziano prima finge di sostenere che le arti possano esporre senza ornamenti la verità, ma viene poi convinto dalla Camena, simbolo della poesia, che sia necessario anche un rivestimento retorico e che, accanto al vero, occorra ricercare anche il bello. Così anche Lucrezio nella sua opera naturale dichiara di voler cospargere il bordo della coppa da cui si attinge la difficile conoscenza delle cose con il miele dell'arte. Di certo Guglielmo di Conches cita Marziano allorché sostiene che è bene che il filosofo si serva di elementi figurativi per celare le verità della filosofia naturale e chiama questi elementi "integumenta"; leggiamo infatti nelle "Glosse a Platone" che c'è conoscenza filosofica ed arte di interpretare gli integumenta e l'una non può stare senza l'altra.


    PARTE QUARTA - LA SAPIENZA DI CHARTRES, IL RINASCIMENTO "SECONDO MARZIANO"

    Abbiamo visto molte delle ragioni per le quali la scuola di Chartres utilizza, oltre al "Timeo", il "De Nuptiis" di Marziano come testo di autorità scientifica, naturale o teologica. In verità, molte sono, a quel tempo, le opere scientifiche in cui conoscenza scientifica e poesia si trovano unificate, come nel "Doctrinale" di Alessandro di Villedieu, una grammatica latina in versi, molto diffusa nelle scuole medievali dall'inizio del XIII secolo e contenente un buon numero di nozioni di argomenti diversi.
    Ci dedichiamo ora al pensiero dei maestri di Chartres analizzando le loro opere, in particolare per quanto concerne la retorica come strumento per la ricerca scientifica ed il passaggio dalla fisica alla teologia.

    CAPITOLO PRIMO - LA RETORICA DEL "DE NUPTIIS" A CHARTRES

    Guglielmo di Conches, nella Glossa alla "Consolatio" di Boezio, afferma che non possono dedicarsi alla sapienza coloro che non conoscono il modo di parlare di filosofia per mezzo di integumenti. In tal modo l'interpretazione, ovvero lo studio retoricamente condotto, delle opere degli antichi supera la conoscenza sperimentale, la comprensione degli eventi naturali; ciò è tanto più vero quando sono poste a confronto fisica e teologia, ovvero la scienza umana, raffigurata nel "De Nuptiis dalle arti, con la scienza divina, rappresentata dal senato celeste.
    Non importa poi quali autorità siano prese in considerazione nella scuola poiché comunque l'opera di Marziano insegna che la scienza e l'arte sono unite, cosicché nell'opera scientifica la conoscenza sia esposta in modo artistico e nell'opera d'arte siano indicati nozioni naturali e precetti morali. Gli autori del tempo, infatti, non rinunciano alla cura stilistica delle opere, sia dotte che leggere, nelle quali desiderano una certa lepidezza, o piacevolezza, come Virgilio di Bagorre nelle sue "Epitomae", e certi colores rethorici che conferiscano valore letterario, come vuole Matteo di Vendome nella sua "Arte del Versificare", non solo per impreziosire, ma anche per completare, il valore scientifico.
    Tutti i maestri dell'antichità, nelle opere dei quali sia ravvisabile la medesima unità scientifica e letteraria che informa il "De Nuptiis", filosofi come Platone, poeti come Virgilio o eloquenti retori come Marziano, sono apprezzati e commentati a Chartres, ove i maestri ricercano nei testi un unico messaggio scientifico ed elaborano un solo procedimento retorico, a fondamento del quale è posto il valore conoscitivo la figura.
    A sua volta, la figura è distinta in integumento ed allegoria. Come, infatti, scrive Bernardo Silvestre nel "Commento a Marziano", la figura è un genere dell'insegnamento: "la figura, infatti, è una forma espressiva, che solitamente chiamiamo involucro, e si divide in due, cioè allegoria ed integumento". Il maestro carnotense spiega che l'allegoria è una forma espressiva che cela una verità diversa da quella che si comprende esteriormente, come ad esempio la lotta di Giacobbe, mentre l'integumento è una forma espressiva che, in forma di narrazione favolosa, racchiude una verità comprensibile, come a proposito di Orfeo, cosicché la allegoria riguarda la teologia e l'integumento la filosofia.
    Come si è visto, anche le figure del "De Nuptiis" possono essere distinte in allegorie ed integumenti sebbene nella narrazione siano mescolate assieme ed appaiano molto simili, tanto più se che legge l'opera è un teologo cristiano. Il senato di Giove, strutturato in gerarchia piramidale ed in divenire discendente, figura per il paradiso, le divinità pagane, ornate con vestimenti simbolici, figurano le leggi dell'universo, le arti parimenti figurano le scienze e i fenomeni naturali. Il primo, dunque, è allegoria, i secondi sono integumenti.
    Sebbene tutti gli autori approvino la distinzione posta da Bernardo, la definizione non è applicata in modo rigido e talvolta allegoria ed integumento sono utilizzati come sinonimi. Infatti, come attesta Macrobio, sebbene nel trattato filosofico l'integumento non sia sempre adatto, in particolare quando l'intelletto osa innalzarsi fino a Dio, tali espressioni favolistiche sono pressoché sempre concesse. D'altronde, allegoria ed integumento, sebbene siano distinte a seconda della materia, si confanno ad un'unica legge retorica, formulata da Goffredo di Vinosalvo nel "Documentum de arte versificandi" e che abbiamo già visto.
    Lo stesso Macrobio, dunque, concedendo di utilizzare l'integumento anche in argomento teologico, sebbene lo giudichi insufficiente o inadatto, permette di utilizzare allegoria ed integumento come sinonimi. Bernardo Silvestre sembra seguire il permesso di Macrobio allorchè nel Prologo del suo "Commento a Marziano Capella", non distinguendo tra i termini, scrive: "Perciò Virgilio, quando descrive la vita temporale dello spirito unito al corpo, fa uso di integumenti. E, ancora, Virgilio stesso, introducendo la Sibilla che rivela notizie divine, dice che racchiude cose vere in forme oscure, ovvero cela le cose divine sotto integumenti. E anche Platone, essendo arrivato all'anima, dice in forma figurata che il numero ne è la materia. E, pur parlando esplicitamente delle stelle, quando si accinge a parlare misticamente degli spiriti si volge all'integumento e dice che Oceano e Teti sono figli del cielo e della terra. E anche Marziano Capella, manifestando la deificazione della natura umana, parla da saggio teologo, che non dice cose senza riferirsi al mistero".

    CAPITOLO TERZO - LA LETTERATURA FIORITA ATTORNO AL "DE NUPTIIS"

    A partire dall'età carolingia, in cui fu utilizzato come libro di testo e come summa delle arti liberali, fino al rinascimento, in cui la scuola medicea ne apprezzò la dottrina neoplatonica e la densità di simboli, il "De Nuptiis" è certamente una delle opere dell'antichità più commentate e glossate, sia per la ricchezza di contenuti scientifici e filosofici, sia per la ricercatezza e l'arduità dello stile.
    L'opera è infatti un fortunato compendio delle arti, ma non è di certo un'opera per giovani studenti; da ciò la necessità di glossarla, ovvero di parafrasarla in riassunti od esposizioni letterali adatte alla didattica. È altresì un componimento assai erudito, raffinato e per di più compatto, il che stuzzicò le tentazioni intellettuali e le capacità esegetiche delle menti più raffinate dell'alto medioevo, Remigio di Auxerre e Giovanni Scoto Eriugena.
    L'opera, seppur tra alterne vicende, non ha mai smesso di attirare a sé l'attenzione degli intellettuali sia per motivi artistici, che scientifici, che teologici. Ricordiamo l'elogio di Nicola Copernico, che si compiacque nel riconoscere che la trattazione marzianea delle orbite dei pianeti di Mercurio e di Venere, esposta nel VII libro, è eliocentrica e non geocentrica.
    Le opere letterarie e filosofiche che contengono riferimenti al "De Nuptiis" sono innumerevoli. La più antica è certamente la "Esposizione delle Parole degli Antichi" di Fabio Planciade Fulgenzio, che sembra inoltre autore dell'opera "Commento alle Nozze di Mercurio e Filologia di Marziale" [sic!]. Troviamo poi riferimenti nelle "Istituzioni" di Cassiodoro, nella prefazione al secondo libro, nel libro decimo della "Storia dei Franchi" di Gregorio di Tours, nel secondo capitolo del primo libro delle "Etimologie" di Isidoro di Siviglia, nel "Poema in versi all'amico Fidolio" di San Colombano, nella "Grammatica a Carlo" di Alcuino di York, negli "Elementi di Filosofia" di Beda il Venerabile, nella "Istruzione del Clero" di Rabano Mauro, nelle "Questioni Naturali" di Adelardo di Bath, nel "Metalogico" di Giovanni di Salisbury (I, 12 e 24; II, 9). L'intero "Anticlaudiano" del grande dottore Alano di Lilla contiene una raffigurazione delle arti liberali certamente ispirata a Marziano; si trovano riferimenti nella "Arte della Predicazione" e nel "Pianto della Natura" dello stesso autore, come nell'"Eptateuco" di Teodorico di Chartres, una enciclopedia delle sette arti liberali, e nel celebre "Didascalicon" di Ugo di San Vittore. Le opere di commento più importanti sono certamente il Commento al "De Nuptiis" di Martino di Laon, l'"Ecloga a Teodulfo", libro di testo della scuola carolingia, di Godescalco, il "Mito del Mondo" di un Anonimo del IX secolo, il più volte citato e pregevole "Commentario" di Remigio di Auxerre, il "Commentario" di Giovanni Scoto Eriugena. Tra i commentatori italiani si trovano Raterio di Verona, Stefano di Novara, Gunzo di Novara, Eugeius Vulgarius, Liutprando da Cremona. Si deve ricordare anche il commento presente nelle "Opere sul Quadrivio" di Gerberto di Aurillac e il celebre "Macrocosmo e Microcosmo, o Sulla Totalità dell'Universo", ed il "Commento a Marziano Capella" di Bernardo Silvestre.


    PARTE QUINTA - LE "NOZZE DI MERCURIO E FILOLOGIA" NELL'ARTE

    CAPITOLO PRIMO - IL MEDIOEVO E LE SCUOLE CATTEDRALI

    Pittori, scultori, architetti, miniatori, copisti e tessitori di arazzi hanno attinto nel corso dei secoli alle immagini allegoriche che densamente popolano l'opera di Marziano, abbellendo le pareti dei palazzi, le pagine dei libri e le facciate delle grandi cattedrali europee, come Chartres, Auxerre e Parigi. Abbiamo infatti detto che Marziano per primo ha rappresentato in forma allegorica le sette arti liberali e ritroviamo personaggi e scene, in particolare le donne che personificano le discipline, secondo la descrizione dell'opera, raffigurate su tavole, pagine, arazzi e facciate di chiese a partire dall'alto medioevo fino al tardo rinascimento. Per prime, le copie manoscritte del "De Nuptiis" furono miniate, a partire dal X secolo, con scene e simboli coerenti alla narrazione ed anche tante altre opere filosofiche, spesso di Boezio, mostrano i ritratti delle arti dipinti secondo le indicazioni del testo. Oltre a queste raffigurazioni sono conservate rappresentazioni pittoriche e scultoree delle sette arti e numerose descrizioni di manufatti scomparsi, come lo scritto intitolato "Le sette arti liberali dipinte in una certa pittura" del vescovo di Orleans Teodulfo, confidente di Carlo Magno.
    Alcune delle maggiori opere d'arte ispirate a Marziano sono:
    - Pannelli con i rilievi delle Arti sul campanile del duomo di Firenze, opera di Andrea Pisano e della sua scuola
    - Tomba di Roberto d'Angiò a Napoli scolpita con immagini delle arti
    - Affreschi delle sette arti nella Cappella Spagnola di S. Maria Novella a Firenze
    - Figure in rilievo sul piedistallo del pulpito della cattedrale di Siena, opera di Nicola Pisano
    - Rilievi sul piedistallo del pulpito della cattedrale di Pisa, opera di Giovanni Pisano
    - Fonte battesimale della Piazza del Municipio con figure scolpite, opera di Nicola e Giovanni Pisano
    - Pannelli a rilievo raffiguranti le arti liberali del Tempio Malatestiano
    - Figure bronzee sulla tomba di Sisto IV in S. Pietro a Roma, opere del Pollaiolo
    - Affresco per Lorenzo Tornabuoni sulle sette arti liberali, opera di Botticelli
    - Figure delle arti nelle Stanze Vaticane Borgiane, opera di discepoli del Pinturicchio
    - Miniature delle arti liberali, in alcuni casi accompagnate da Filosofia (non presente in Marziano ma indicata da Agostino)
    - Arazzo raffigurante le arti e scene narrative tratte dal "De Nuptiis" nella cattedrale di Quedlinburgh
    - Facciate delle cattedrali di Chartres, Laon, Auxerre, Sens, Rouen e Friburgo.

    CAPITOLO SECONDO - BOTTICELLI E IL RINASCIMENTO FIORENTINO

    Il primo personaggio è Mercurio, lo sposo di Filologia e quindi uno dei protagonisti: volta le spalle a tutti perché Marziano identifica il dio con il pianeta, che ha un moto retrogrado. Botticelli lo rappresenta mentre sta per consultare il fratello Apollo: le nubi che disperde con il caduceo alludono all'alta roccia in cui risiede Apollo prima del loro incontro. Il pittore, inoltre, lo raffigura "rivestito di un piccolo mantello" (Marziano) di colore rosso, adatto a uno sposo visto che questo colore simboleggia amore. Molti altri dettagli contribuiscono alla visione di Mercurio come il dio dell'Ermeneutica.
    Seguono le tre Grazie, che sono collegate da Marziano alle nozze di Mercurio: quella di spalle, disadorna, è Castità, quella di sinistra è Voluttà e quella di destra è Bellezza.
    La figura femminile al centro, spesso interpretata come Venere, è la sposa di Mercurio, Filologia: Marziano la descrive con il volto molto pallido e con i sandali di papiro intrecciato (entrambi i caratteri appaiono nel quadro) mentre il colore rosso della pietra e del manto della fanciulla si spiegano come simboli dell'amore, visto che è la sposa.
    Cupido è simbolo dell'amore spirituale in ottica platonica.
    La donna con i fiori - la Flora tradizionale - è interpretata come Retorica: tra le sette arti liberali è quella che Marziano tratta più ampiamente, ed associa alla Filologia. Botticelli la rappresenta caratterizzata dai fiori per alludere ai flores retorici (fiori della retorica).
    Il gruppo di destra è formato da un dèmone e da Flora, che è qui simbolo della poesia (sono Zefiro e Cloris nelle interpretazioni tradizionali): entrambi rappresentano l'ispirazione poetica intesa come "divino furore", secondo un'interpretazione che il filosofo Marsilio Ficino deriva da Platone.


    BIBLIOGRAFIA

    Voglio qui raccogliere sia le opere estesamente consultate sia quelle solamente citate e comunque importanti per dare un quadro completo della estesa bibliografia antica necessaria per leggere ed interpretare correttamente questa opera.

    Adelardo di Bath, Questioni naturali
    Agostino, Dialettica
    Agostino, Il maestro
    Agostino, La città di Dio
    Alano di Lilla, Anticlaudiano
    Alano di Lilla, Il pianto della natura
    Alano di Lilla, Le regole del diritto celeste
    Alcinoo, Didascalico
    Alcuino di York, Grammatica "Karoli"
    Alessandro di Hales, Summa di Alessandro
    Alessandro Neckam, Questioni naturali
    Anneo Cornuto, Compendio di teologia greca
    Anonimo del IX secolo, Il mito del mondo
    Anselmo, Il grammatico
    Apuleio, Metamorfosi
    Arato di Soli, Fenomeni e pronostici
    Aristotele, Distinzioni
    Aristotele, Fisica
    Aristotele, Grande Etica
    Aristotele, Metafisica
    Aristotele, Organon
    Aulo Gellio, Le notti attiche
    Avicenna, Metafisica
    Beda il Venerabile, De arte metrica
    Beda il Venerabile, Elementi di filosofia
    Beda il Venerabile, La natura del tempo
    Bernardo Silvestre, Macrocosmo e microcosmo
    Bernardo Silvestre, Commento a Marziano Capella
    Bertoldo di Moosburgo, Commento agli elementi di Proclo
    Boezio, Commenti a Porfirio
    Boezio, De consolatione philosophiae
    Calcidio, Commentario al Timeo di Platone
    Cassiodoro, Istituzioni
    Cicerone, Academica
    Cicerone, Tusculanae disputationes
    Cicerone, De inventione
    Cicerone, De natura deorum
    Crisippo, frammenti
    Dante, Commedia
    Diogene Laerzio, Vite dei filosofi
    Donato, Arte maggiore e arte minore
    Esiodo, Museo, Epimenide, frammenti e testimonianze
    Eraclito, frammenti e testimonianze
    Euclide, Elementi
    Filone di Alessandria, Commento alla Genesi
    Fulgenzio, Esposizione delle parole degli antichi
    Giovanni di Salisbury, Metalogico
    Giovanni Scoto Eriugena, Commentario al "De nuptiis"
    Giovenale, Satire
    Godescalco, Ecloga a Teodulfo
    Goffredo di Vinosalvo, Documento sull'arte del poetare
    Gregorio di Tours, Storia dei Franchi
    Guglielmo di Conches, La filosofia del mondo
    Igino, Mitologia astrale
    Isidoro di Siviglia, Etimologie
    Lucrezio, De rerum natura
    Macrobio, Commentario al Somnium Scipionis
    Martino di Laon, Commento al "De nuptiis"
    Marziano Capella, De nuptiis Mercuri et Philologiae
    Matteo di Vendome, Arte del versificare
    Menippo di Gadara, Opere
    Mgstr. S., Esposizione e commentario a Marziano Capella
    Nicomaco di Gerasa, Introduzione alla aritmetica
    Orazio, Satire
    Pitagora e Scuola pitagorica, frammenti e testimonianze
    Platone, Cratilo
    Platone, Lettera a Dionigi
    Platone, Fedro
    Platone, Filebo
    Platone, Timeo
    Platone, La Repubblica
    Plinio, Naturalis historia
    Plotino, Enneadi
    Plutarco, Iside e Osiride
    Prisciano, Istituzioni grammaticali
    Proclo, Elementi di fisica
    Proclo, Elementi di teologia
    Proclo, Provvidenza
    Proclo, Teologia Platonica
    Quintiliano, Institutio oratoria
    Rabano Mauro, L'universo mondo o la natura
    Remigio di Auxerre, Commentario al "De Nuptiis"
    San Colombano, Poema in versi all'amico Fidolio
    Seneca, Lettere morali a Lucilio
    Servio, Commentario all'Eneide
    Sidonio Apollinare, Carmi
    Teodorico di Chartres, Commento al De Trinitate di Boezio
    Teodorico di Chartres, Eptateuco
    Tiberiano, Carmi
    Tolomeo, Cosmografia e Almagesto
    Ugo di San Vittore, Didascalico
    Varrone, I Libri delle Discipline
    Virgilio di Bagorre, Epitomae
    Zoroastro, Oracoli