• L'indagine sulle origini della vita e la stessa ricerca sulla "nascita" dell'Universo ripropongono continuamente anche la questione del ruolo del caso nei meccanismi della realtà fisica o, in altri termini, il tema della possibilità di individuare cause determinanti di ogni ordine di fenomeni.
    Il complesso di interrogativi cui mi riferisco è stato presente nel pensiero umano sin da tempi sicuramente antichissimi ed appare comunque chiaramente impostato e discusso con grande ampiezza e varietà di argomentazioni particolarmente "moderne" già nella filosofia greca diversi secoli prima di Cristo.
    Ci si può attendere che, date certe condizioni, ben determinate e conosciute, una situazione inizialmente analizzata possa evolversi in diversi modi "per caso", oppure, ad esempio, per il "libero arbitrio" di qualcuno o per qualunque altra ragione in qualche modo comprensibile?
    C'è già un problema preliminare molto serio: in che senso le condizioni in cui si determina una certa situazione possono essere ben determinate e conosciute? Per ora diciamo "per quanto possibile" con l'indagine più accurata. Poi cercheremo di essere più precisi.
    Molte sono le teorizzazioni di "volontà superiori" o di sistemi di "calcolo delle responsabilità" per gli uomini, in vista dell'assegnazione di premi o castighi in relazione al comportamento. Ma già nell'antichità si poneva il problema delle cause determinanti di ogni realtà fisica come di ogni comportamento sociale. Quello che molti non potevano e non possono in sostanza accettare anche oggi è la prospettiva dell'analisi dei comportamenti di "esseri ragionevoli" nello stesso ambito che comprende anche il resto della realtà naturale, dalle altre forme di vita fino al mondo inanimato. In questa situazione il "libero arbitrio" finisce con il diventare un dogma collegato all'idea che anche nella realtà fisica sia possibile aspettarsi da cause identiche per quanto è dato vedere, sviluppi anche radicalmente diversi.
    Voci diverse e lontane per qualche aspetto, ma simili nella visione del legame tra causa ed effetto, affrontano la riflessione introducendo il tempo come riferimento essenziale. Diodoro Crono, ad esempio, già nel IV secolo A.C., con il "discorso dominatore" nega che vi possano essere diversi sviluppi da una unica causa, poiché - sostiene - ciò che in passato è avvenuto doveva necessariamente avvenire, e se mancavano alcune condizioni perché potesse verificarsi, non si sarebbe verificato. Lo stesso vale per qualunque futuro: il futuro stesso è quindi, come il passato, determinato ed immutabile, in quanto conseguenza, in tutti i dettagli, dell'immutabile passato.
    E Samuel Butler, poco più di un secolo fa, in un passo del Libro delle macchine (nel romanzo Erewon) diceva tra l'altro: "L'uomo è il risultato e la manifestazione di tutte le forze che hanno agito su di lui, prima o dopo la nascita. In ogni istante, la sua azione dipende unicamente dalla sua costituzione, e dall'intensità e direzione delle varie forze a cui è ed è stato soggetto. (...) Perché il futuro dipende dal presente, e il presente (...) dipende dal passato: e il passato è inalterabile". E più avanti - pur sapendo benissimo che in certe circostanze non si verificano determinate conseguenze in forza di certe premesse proprio perché le premesse medesime sono solo apparentemente identiche - Butler pone suggestivamente il determinismo a fondamento di ogni ragionevole aspettativa delle azioni umane: "Chi arerebbe o seminerebbe se non credesse nell'immutabilità del futuro? Chi getterebbe acqua su un incendio se non fosse certo che l'acqua può spegnerlo?". E puntualmente presenta le possibili "eccezioni" come casi in cui le circostanze di un fenomeno non sono in realtà ben determinate. Se è vero ad esempio che non sempre un codardo scapperà di fronte ad un oggetto terrificante, è anche da ritenere certo che, "se ci sono due codardi perfettamente simili, e si trovano di fronte a due oggetti terrificanti perfettamente simili, e in condizioni perfettamente simili", il risultato sarà identico per entrambi. (Cfr. la raccolta di AA.VV. La filosofia degli automi, a cura di Arturo Somenzi, Boringhieri, 1965).
    In molti pensatori la tendenza deterministica appare quasi un indice di per sé negativo, secondo i critici che soprattutto rimproverano loro il fatto di considerare, appunto, i comportamenti umani tanto determinati e immutabili quanto quelli della realtà naturale in genere. Basti pensare, ad esempio, a quali atteggiamenti di incredibile superficialità (o addirittura di banale "sufficienza") si trovano fra certi critici a proposito del grande scontro che in Leopardi oppone "il destino invitto e la ferrata necessità" agli uomini, gli "infermi schiavi di morte" del "Bruto minore": un conflitto determinato e perduto in partenza, come appare in tanti lucidissimi passi in versi ed in prosa del grandissimo poeta (e rigorosissimo pensatore) italiano.
    Tuttavia lo studio del comportamento umano, animale e degli esseri viventi in genere, a partire da qualche secolo fa (e con risultati per certi versi decisivi negli ultimi decenni) ha determinato sempre più il campo dell'aleatorio, o se si vuole del "casuale", così come in tante regioni del dominio dell'"inanimato" le leggi tendono ad essere sempre più dettagliate e precise. Anche se la risoluzione di un problema ne apre in genere diversi altri, non possiamo dimenticare che certi strumenti di indagine risolvono intanto problemi prima insoluti, dando in una sterminata quantità di casi la certezza (una certezza umana, che può sempre essere rimessa in discussione da altri uomini, naturalmente) che determinati meccanismi fisici agiscono in certe condizioni e non in altre.
    Di fatto non sembra seriamente contestabile che, ad esempio, la meccanica newtoniana abbia risolto problemi e permesso la sicura acquisizione di conoscenze prima incerte o addirittura inimmaginabili. E se oggi manovriamo l'energia nucleare per diversi usi (speriamo di non avere ancora occasioni di pentirci di certi usi) o se accendiamo una lampadina o pigiamo un tasto di un computer, ciò implica la conoscenza, diretta o anche molto indiretta, del fatto che le particelle si comportano in certe situazioni in certi modi e non in altri per cause che cerchiamo di conoscere. Se usiamo un vaccino o mettiamo insieme i pezzi di un virus o analizziamo un gruppo di molecole ... e così via ... ci troviamo in situazioni simili. E quando siamo stanchi o ci arrabbiamo o decidiamo all'improvviso di fare o non fare la tal faccenda, o quando ci lanciamo ad afferrare il pallone che l'amico ci tira durante una partita ... compiamo azioni che hanno una corrispondenza in tutta l'organizzazione fisica e chimica del nostro corpo, a partire dal cervello. Ogni movimento (anzi, ogni sua frazione misurabile) tra le tante migliaia che un pianista compie durante un'esecuzione dipende da una dinamica estremamente complessa, ma chiaramente determinata per quanto le nostre capacità di analisi consentono, del suo sistema nervoso. In assenza di certe condizioni i gesti non si compiono.
    Ovvio? Il fatto è, comunque, che quando certi comportamenti si rivelano anomali rispetto alle leggi che conosciamo, ne cerchiamo le cause, pronti, se vi sono motivi serî, a modificare, integrare, ampliare le leggi, o anche a sostituirle con altre che diano ragione di un'area più vasta di fenomeni, compresi per quanto possibile anche quelli che erano "anomali".
    Ma così facendo noi mostriamo di non accontentarci in genere dell'idea che un qualunque evento possa prodursi per "caso" nel senso che vi siano alcune possibilità che, in situazioni determinate per quanto possiamo saperne, si possa produrre un evento oppure, indifferentemente, un qualsiasi altro. In realtà alla base di tanti equivoci e malintesi si deve porre, credo, il fatto che parlando di caso, sorte, causa, legge noi usiamo talvolta gli stessi termini per indicare diversi fenomeni o modi in cui la realtà ci appare.
    Ma nel momento in cui ammettiamo che anche la più piccola variante a livello di causa, se analizzata nei più minuti dettagli, ci può dar ragione di varianti che si riscontrano negli effetti, allora non ci meravigliamo minimamente che, date certe condizioni, non sempre si producano certi effetti, proprio perché le condizioni considerate non erano in realtà perfettamente identiche. Né d'altra parte certe situazioni in cui appare perfettamente indifferente che possa accadere un fatto o un altro, ci possono trarre in inganno.
    Sappiamo ormai bene quanto sia difficile costruire meccanismi ed apparecchiature che ci diano, ad esempio, numeri o indicazioni e combinazioni perfettamente casuali. Se sapessimo come sono disposti, ad esempio, i numeri della tombola nel sacchetto chiuso ed avessimo tutte le informazioni su ciò che agisce su chi deve estrarli, non avremmo alcuna difficoltà nel prevedere quale numero sarà estratto ogni volta.
    Intendo dire, al di là del livello di efficacia dell'esempio, che se teniamo conto della reale diversità di situazioni apparentemente identiche (o anche dell'analogia di tante situazioni apparentemente in totale contrasto) possiamo concludere che - nell'ambito determinato cui ho voluto riferirmi - caso, legge, sorte, destino, causa - coincidono in una perfetta identità. Si distinguono solo come aspetti o modi, o forme attraverso le quali l'uomo cerca di divenire consapevole della realtà. Solo nell'ambito di questa identificazione io posso dire di credere che gli eventi si verifichino "per caso": un caso assolutamente determinato, senza alcuna possibilità di produrre eventi diversi rispetto a quelli che produce.
    Una fondamentale e generale istanza del metodo scientifico moderno è proprio la richiesta della ripetibilità dei fenomeni come condizione per la loro verificabilità. Il fenomeno non si considera verificabile se non si può riprodurre in laboratorio o non si può comunque assistere alla sua riproduzione (anche in situazioni-limite, ad esempio in campo astrofisico, quando il "laboratorio" dovrebbe essere lo spazio extraterrestre o l'intero Universo) in condizioni determinate per quanto è possibile.
    Allora il problema è: fino a che punto una qualunque situazione nella quale ci si attende un certo evento è per noi determinata nel senso che ne conosciamo tutti gli aspetti essenziali per analizzarla e prevederne l'evoluzione? Possiamo dire che saremmo in grado di ripeterla nei minimi dettagli?
    E quando (spesso, in certi ambiti di ricerca) accade che gli strumenti di analisi e di misurazione interagiscono con il fenomeno in esame contribuendo a determinarlo o comunque condizionarlo in modo sostanziale?

    Si sente dire talvolta molto autorevolmente che l'origine della vita sulla terra, se si dovessero considerare le interazioni puramente "casuali" di particelle elementari, diverrebbe estremamente improbabile: potrebbero trascorre molte volte tutti i miliardi di anni che sono passati dal Big bang prima che non solo le cellule, ma, prima ancora, i composti organici che sono alla base della vita, come proteine ed amminoacidi, possano formarsi "casualmente". Anche di qui la polemica di Hoyle e Wickramasinghe (in La nuvola della vita, Mondadori, 1979) contro la teoria del "Brodo primordiale" come spiegazione possibile dell'origine della vita sulla Terra. Secondo i due celebri studiosi le molecole prebiotiche da cui derivarono le prime forme di vita, non avrebbero avuto verosimilmente sulla Terra né il tempo né l'ambiente adatto per svilupparsi e sarebbero giunte sul nostro pianeta dall'esterno, attraverso nuclei cometari e meteoriti per mezzo dei quali ancora oggi certi composti organici vi giungono.
    Naturalmente questi studiosi non intendono considerare la possibilità che certi "meccanismi " naturali possano abbreviare i tempi e d'altronde non possono sfuggire alla necessità di chiedersi come le molecole prebiotiche abbiano potuto comunque aver origine in un tempo determinato, per quanto lungo, anche al di fuori della Terra.
    Meno sorprendente appare a molti ricercatori e teorici l'idea che certi legami al livello di atomi, molecole, gruppi di molecole e certe forme di organizzazione in genere della materia si realizzino, come dicevo, anziché "per caso ", in relazione a certe "leggi naturali".
    L'osservazione può sembrare banale, ma non mi pare che si possa trascurare l'istanza di chiarezza che contiene.
    Molti pensatori rifiutano l'idea che qualcosa possa accadere per caso, o, dio ne guardi, per "destino", ma sono pronti ad accettare, a condizione di una seria verifica, la spiegazione di qualunque evento "apparentemente casuale" attraverso leggi fìsiche le quali toglierebbero di mezzo il caso spiegando le cause degli eventi. Ma non esiste alcun fondamento per distinguere tra questi termini in senso assoluto: noi preferiamo parlare di caso, con ottimi motivi, ogni volta che esaminiamo degli eventi per i quali non abbiamo analisi teoriche dettagliate che ce ne consentano l'esatta descrizione o la possibilità di previsione motivata e sicura. Non appena ne scopriamo le leggi tendiamo a non parlare più di caso, ma di meccanismi naturali, di cause, di leggi appunto. La distinzione può essere utile, anzi in certi casi è certamente utile, purché non si dimentichi che ad agire sugli eventi sono sempre gli stessi fattori naturali.
    Ma certamente, quando intendiamo individuare gli elementi determinanti di un qualunque fenomeno, intendiamo, come osservavo in precedenza, le cause senza le quali esso non si verifica e indicare che esso si verifica necessariamente se esse sono presenti. Intendiamo quindi negare, per le ragioni già indicate, che un fenomeno possa verificarsi o, indifferentemente, non verificarsi in presenza di cause identiche. O, se si preferisce, in una situazione casuale identica. Chiamiamo poi leggi quelle caratteristiche sperimentalmente verificate del caso, cioè i modi in cui si manifestano le cause determinanti dei fenomeni.
    Cercheremo di vedere poi come queste considerazioni non vengano invalidate a nostro avviso neppure nell'ambito della fìsica delle particelle, ma poiché la discussione sulla validità del determinismo è presente anche "al di qua" di essa, tentiamo una prima conclusione su questo terreno.
    Se noi suddividiamo un evento in frazioni per quanto possibile semplici e cerchiamo di considerare il maggior numero possibile di circostanze in cui si producono, generalmente giungiamo ad una spiegazione, o almeno riusciamo a vedere alcuni meccanismi che con un'analisi più "a largo raggio" ci sfuggivano. È un po' come osservare uno stesso fatto - ad esempio il moto di un corpo, o dei tessuti viventi - ad occhio nudo, con una lente, al microscopio con ingrandimenti sempre maggiori per quanto le possibilità di risoluzione degli strumenti permettono, ma tenendo anche sempre presente l'insieme, la visione completa ad occhio nudo. Ciò che poteva apparire "casuale" nel senso che non se ne vedevano i meccanismi nascosti agenti ad un livello più "fine", appare di solito gradualmente spiegabile e rimane generalmente la possibilità di tentare un'analisi ancora più fine. Ma fino a che punto? Non si dice che il determinismo è stato sconfitto proprio in fìsica? Ma quale "determinismo"? E in che senso?
    Il principio di indeterminazione, di cui Heisenberg giunse a dare dimostrazione contro le tesi deterministiche di Einstein, implica infatti che descrivere la traiettoria di una particella è privo di senso in sede teorica, come ricorda ad esempio Geoge Gamow (in Biografia della Fisica, edito in Italia negli anni '60) e come ancora oggi tranquillamente si ammette: "Nel mondo della nostra esperienza quotidiana - avverte Gamow - noi possiamo osservare qualunque fenomeno e farne delle misure quantitative senza influire in modo rilevante sul fenomeno stesso (...) Ma su scala atomica non possiamo trascurare la perturbazione prodotta dall'introduzione dell'apparecchio di misura. Le energie in gioco sono talmente piccole che anche la più accurata misura può perturbare significativamente il fenomeno in questione e noi non potremo mai garantire che i risultati della nostra misura descrivano ciò che sarebbe accaduto realmente in assenza degli strumenti di cui ci siamo serviti. L'osservatore e gli strumenti diventano dunque parte integrante del fenomeno in esame".
    Volendo descrivere la traiettoria di una particella, ad esempio un elettrone, e quindi conoscerne la posizione esatta e la velocità in ogni istante - se la " illuminiamo" con fotoni troppo energetici (alta frequenza, piccola lunghezza d'onda) ci accorgiamo che gli urti con ogni singolo fotone ne modificano sensibilmente la traiettoria. Se invece riduciamo la frequenza - aumentando automaticamente la lunghezza d'onda, dato che l'una è l'inverso dell'altra - "la definizione della nostra particella (...) diminuisce a causa di fenomeni di diffrazione, quindi adesso non potremo più individuare la posizione dell'elettrone in ogni istante". A differenza di quanto accade con corpi di maggiori dimensioni noi non possiamo prevedere partendo da "condizioni iniziali note" i movimenti delle singole particelle, perchè in questo caso ci è impossibile conoscere le "condizioni iniziali" in quanto ogni tentativo di misura le altera.
    Le implicazioni e le conseguenze di questa constatazione sono di enorme importanza, e in questo articolo ad esse si accenna appena. Ma ciò che è fondamentale per la riflessione che cerco di presentare è che questa indeterminazione è prevedibile e misurabile almeno nel senso che non può superare certi limiti e, come lo stesso Gamow nota, può essere resa estremamente ampia per la velocità ed annullata per la posizione o viceversa e inoltre, con l'uso di fotoni di lunghezza d'onda "adatta " ( né troppo ampia né troppo piccola) può offrire una indicazione relativamente buona di velocità e posizione della particella in esame. E ciò pare di poter concludere - in modo contenibile e quantificabile nel senso che esistono delle soglie al di là delle quali non vi sono più problemi di indeterminazione e quindi l'esame accurato delle cause conduce alla prevedibilità rigorosa degli effetti.
    Personalmente ritengo che Einstein non avesse affatto torto nel ritenere che un giorno la fìsica - come nota ancora Gamow che la pensa ben diversamente - sarebbe ritornata al principio "deterministico" anche nel campo delle particelle. Il fatto che noi non siamo in grado di conoscere le condizioni di singole particelle senza alterarle non significa che gli eventi si producano "senza condizioni" o indifferentemente in condizioni diverse o magari opposte. In modo simile si potrebbe dire forse che chi getta l'amo o le reti in acqua, o chi cammina in una stanza buia, non conosce la disposizione dell'ambiente ma è certo (non per pregiudizio) che l'ambiente ha delle misure, che in esso c'è spazio per animali o oggetti diversi per quanto può dedurre da esperienze precedenti. E le caratteristiche emergono non appena le condizioni di osservazione lo permettono, come accade in fìsica non appena si va al di là del livello subatomico e con maggiore evidenza quando si ha a che fare con dimensioni ancora maggiori.

    Il principio deterministico o, se si vuole, l'idea fondamentale del meccanicismo, mantiene tutto il suo valore come principio filosofico di fondo. In tal senso essa non si oppone tanto al principio di indeterminazione in fisica, quanto a qualunque forma di "finalismo" e ad ogni tendenza a considerare "indifferente" la possibilità che un evento ha di prodursi rispetto a condizioni determinate fino al limite di risoluzione dell'indagine che su di esse si può compiere.
    Ma in generale, come potremmo in definitiva ammettere che, data una "perfetta" identità (sempre fino al limite del "potere di risoluzione" degli strumenti di indagine, cioè fino al più fine dettaglio identificabile) di condizioni, si possa giungere, indifferentemente, ad evoluzioni diverse? In altri termini è tutta da dimostrare, non solo quando si conoscono le condizioni in cui si svolge un qualunque fenomeno macroscopico, ma anche in ambiente subatomico, la libertà di un qualunque evento di svolgersi o meno, o l'indifferenza rispetto alle condizioni (l'ambiente, nel senso più stretto possibile) in cui verrebbe a trovarsi come una parte o un aspetto della realtà non separabile da tutto il resto.
    Se certe leggi e certi atteggiamenti valgono per certe categorie di fenomeni, spesso, con tutte le cautele, si adottano per altre simili.
    Il meccanicismo deterministico - benché si possa dire che nell'ambito delle particelle appare non dimostrabile "per definizione" - offre ogni garanzia di validità in ogni altro ambito macroscopico, esclusi sempre i casi in cui si va oltre le possibilità di sperimentazione (il Big Bang, ad esempio).
    Ma esso tende a mostrarsi valido in ogni ambito in cui sia possibile una verifica sperimentale, e ad essere pienamente accettabile in generale "per induzione". Sul piano logico deduttivo, una volta che si siano accettate certe basi fondamentali di discussione, sfuggire a conseguenze determinate e necessarie appare altrettanto impossibile quanto pretendere che un fatto accaduto non sia accaduto.
    Naturalmente nulla ci impedisce di immaginare possibili altre forme di conoscenza in cui valgano principi del tutto diversi: la scienza stessa, tutta intera, potrebbe essere un'illusione di conoscenza scaturita dal cervello degli "ultimi arrivati", esseri apparsi su una Terra vecchia già di quasi cinque miliardi di anni, in un Universo ancora più vecchio (o infinitamente vecchio, attraverso infiniti cicli di espansione e contrazione?) e di una vastità e complessità praticamente inimmaginabili.
    Ma è a tutt'oggi la sola forma di conoscenza affidabile di cui tali esseri possano disporre.
    Del resto qui abbiamo cercato di considerare solo le forme nelle quali si presenta (e si evolve) a nostro avviso un aspetto fondamentale della realtà attraverso il rapporto basilare cause-effetti.
    Ma, nonostante l'impetuoso progredire delle conoscenze moderne in ogni campo, in profondità e in estensione, che cosa sia la realtà, se e come le cose abbiano origine e termine, come qualunque entità possa esistere rimane al di là di ogni conoscenza possibile.
    Ed è ciò che vogliamo conoscere.


    [Pubblicato in tre parti su PUNTO DI INCONTRO, nella rubrica "Saggistica: cultura e fiction", nei nn. usciti fra il gennaio e il giugno 1992]