• L'Etica di Spinoza si conclude con questa frase: "tutte le cose belle sono tanto rare quanto difficili". La felicità non fa eccezione a questa regola: come tutte le cose belle, è difficile e rara; perciò pensare che si è pienamente felici deriva da una formidabile presunzione. La maggior parte dei filosofi ha sottolineato il carattere eccezionale della fecilità, ed alcuni hanno addirittura dichiarato che essa è inaccessibile.

    Tra i primi filosofi che si sono occupati del problema della felicità troviamo un discepolo di Socrate, Aristippo di Cirene, per il quale la felicità consiste nella ricerca del piacere temperato dalla ragione. Molti secoli dopo, il grande filosofo francese Blaise Pascal si mostrerà pienamente d'accordo con questa identificazione, precisando che "l'uomo è fatto per il piacere; lo sente: non occorrono altre prove". Questa concezione porta anche il nome di edonismo, spesso confuso con l'epicureismo: il carpe diem (o, se preferisci, il "cogliere fin da oggi le rose della vita", come cantava il poeta francese Ronsard nel XVI secolo) è un atteggiamento non epicureo, ma edonista. Edonista è infatti colui che cerca, lungo tutto il corso della vita, la soddisfazione dei suoi desideri e la realizzazione di tutti i piaceri. Non desidera altro che il godimento più completo e totale.
    Ed Epicuro non c'entra in tutto questo. Discepolo di Democrito, egli si fidava poco di quella falsa felicità che fa capo al piacere. Per Epicuro infatti - come poi per Lucrezio, e più tardi ancora per Montaigne - il piacere non può essere considerato come un fine a sé. A suo giudizio, tutte le azioni umane si possono ricondurre a tre categorie fondamentali:
    1) piaceri naturali e necessari (come il mangiare e bere in modo proporzionato al bisogno);
    2) piaceri naturali ma non necessari (come i piaceri carnali, a cui però sarebbe meglio sottrarsi perché la saggezza consiste nel non abbandonarsi agli altri);
    3) piaceri che non sono né necessari né naturali (come l'abbandono all'alcol o alla lussuria).
    Da questa breve distinzione è chiaro che c'è una profonda differenza fra il ritratto del vero epicureo e l'immagine falsa ma abituale dell'epicureo buontempone e allegro compagnone.

    Tradizionalmente opposti agli epicurei troviamo gli stoici. Lo stoicismo, fondato da Zenone di Cizio, prende il nome dal fatto che la scuola si trovava davanti a un portico (stoa). Nei secoli seguenti, tra i seguaci di questa corrente troviamo Seneca, l'imperatore Marco Aurelio, ed Epitteto (autore di un celeberrimo Manuale, tradotto in italiano persino da Leopardi). Per gli stoici la felicità consiste nel distinguere le cose che dipendono da quelle che non dipendono da noi: là dove non possiamo che inchinarci davanti al destino, dove non possiamo far nulla, bisogna contentarsi e subire ("Substine et abstine", cioè "sopporta ed astieniti"). In tale rassegnazione di fronte a ciò che è ineluttabile consiste il segreto della felicità, secondo gli stoici. Tuttavia, se le cose dipendono da noi, allora il nostro atteggiamento dev'essere del tutto diverso: bisogna fare il massimo per ottenere ciò a cui si aspira, proporsi un ideale e far di tutto per raggiungerlo.
    L'opposizione fra queste due scuole - l'epicurea e la stoica - dura da oltre duemila anni, e la ritroviamo ancor oggi nella lingua comune, dove "stoico" rima con "eroico" mentre gli epicurei hanno fama di essere gaudenti, buontemponi, viveurs. Ma non vi è nulla di più inesatto: Epicuro e Lucrezio avevano una morale rigida e rigorosa quanto quella degli stoici.

    Lasciando ora stare i filosofi, e semplicemente osservandoci attorno, possiamo renderci conto facilmente che tutti gli uomini, senza eccezioni, sono alla ricerca della loro felicità personale. È dunque evidente che tutti cercano la felicità, ma è altrettanto vero che pochissimi giungono ad afferrarla, spesso perché non voglio pagarne il giusto prezzo, e a volte perché sono male attrezzati per riuscirci.
    "Il corridore è felice quando corre - diceva Alain - e il saltatore quanto salta, ma lo spettatore non ne trae che piacere". Ma come? Piacere e felicità non sono intimamente connessi? Che differenza si può stabilire fra i due? Non sono esattamente la stessa cosa? Ebbene, no: su questo punto quasi tutti i filosofi sono irremovibili. Il piacere è soprattutto qualcosa di fisico, di carnale, di materiale, di sensuale: si parla del "piacere dei sensi". Inoltre il piacere è parziale e frammentario; può nascere dalla contemplazione di un tramonto senza impedire che nello stesso momento la puntura di una vespa ci faccia gridare di dolore. Invece non si può essere felici ed infelici contemporaneamente. La felicità è un tutto indivisibile, una totalità mentale, un sentimento che sgorga dal nostro animo e ci immerge in un clima spensierato e libero da qualsiasi stato di malessere. La persona felice è come illuminata da un'intima contentezza, sente di avere la coscienza a posto e nessun senso di colpa. L'uomo felice è un uomo tranquillo, in pace con se stesso, contento di se stesso e delle sue azioni, delle sue decisioni, dei suoi rapporti col prossimo.
    Ma torniamo all'esempio di Alain: il saltatore trae felicità nel saltare, ma il salto è un gesto che richiede una lunga preparazione. Fuor di metafora, l'uomo felice non può esserlo per sempre, bensì ad intervalli durante i quali assaporerà i suoi istanti di felicità. E già questi istanti sono rari e difficilmente accessibili.