• Nel movimento di reazione all'idealismo rientra anche il positivismo, il cui iniziatore ideale fu Claude Henry de Saint-Simon (1760-1825), che per primo impiegò il termine "positivo" per indicare lo stadio della scienza, la quale si fonda su esperimenti e risultati di fatto anziché su congetture metafisiche. Ma il maestro indiscusso del positivismo fu un altro francese, Auguste Comte (1798-1857), autore del celebre Corso di filosofia positiva (1830-1842), in cui espresse la convinzione che soltanto la scienza è in grado di darci conoscenza.
    Il positivismo rivela una profonda affinità con l'empirismo prekantiano: ambedue i movimenti, infatti, pongono a base delle loro dottrine l'esperienza. Vi è però anche un punto di notevole contrasto: l'empirismo, infatti, aveva un intento educativo e pertanto mirava a divulgare le proprie teorie e conoscenze; il positivismo si rivela invece come un patrimonio di dottrine riservato a un'élite di specialisti.
    Tornando a Comte, egli credette di riscontrare un'analogia fra l'uomo e la storia dell'umanità; e così elaborò la cosiddetta legge dei tre stadi. Esattamente come l'uomo (che ha una fanciullezza, un'adolescenza e una maturità), nel suo sviluppo l'umanità attraversa tre stadi: teologico (o fittizio), metafisico (o astratto) e scientifico (o positivo). Nel primo stadio, allo scopo di spiegare i fenomeni, l'uomo immagina l'intervento di esseri soprannaturali e di forze magiche. Nel secondo stadio, caratterizzato dall'avvento della filosofia, l'uomo sostituisce ai concetti trascendenti quelli astratti di sostanza, forma, idea ecc., ma mantiene la pretesa di fornire una spiegazione ultima e definitiva della realtà. Infine, nello stadio scientifico (o positivo) ogni astrazione metafisica viene bandita e alla domanda sul "perché" si sostituisce quella sul "come": insomma non si cerca più di rintracciare un'ipotetica causa universale o di individuare l'essenza del Tutto, ma si mira invece a individuare le leggi relative ai fenomeni, cercandone la conferma nei fatti, secondo il metodo delle moderne scienze della natura. Ma esasperando questa adesione alla realtà, il positivismo finì per dimenticare il valore del pensiero, che già per Kant era destinato inevitabilmente ad occuparsi di problemi metafisici, per quanto essi appaiano insolubili.




    La persuasione che si possa dare di tutto spiegazione con la scienza portò Charles Darwin (1809-1882) ad elaborare la dottrina dell'evoluzionismo biologico. Con essa, egli negò che le specie viventi sian sempre state così differenti come appaiono oggi, secondo quel che è l'insegnamento della Bibbia e secondo quanto la biologia stimava fin dai tempi di Aristotele.
    Darwin mostrò invece, adducendo vari esempi, che le varie specie sono il risultato di mutazioni che hanno progressivamente portato forme di vita assai più elementari a una decisa differenziazione. E sostenne che il principio che regola il mutare delle specie sta nella selezione naturale, dovuta all'infinita e universale lotta per la vita, la quale tende sempre a favorire i più forti o i più adatti a un certo ambiente. L'uomo (sebbene ciò possa intristire) non sfugge a questa regola evidente: egli deriva - e non fu sempre uguale - da una specie più antica di animale...
    La dottrina di Darwin suscitò una dura reazione negli ambienti ecclesiastici, in quanto essa negava eternità alle forme di natura. Ma l'ipotesi dell'evoluzione si è imposta e si propone ai nostri giorni come legge scientifica. Volendo eliminare quella ripugnanza psicologica o morale che s'insinua più o meno inconsciamente con l'accostamento alle scimmie, ci si può consolare pensando e osservando come queste, tutto sommato, non siano peggiori delle umane bestie.




    La teoria dell'evoluzionismo fu estesa dal campo scientifico a quello filosofico da Herbert Spencer (1820-1903), il cui pensiero risulta tuttavia invalidato dalle perplessità che lo stesso Darwin espresse circa la possibilità di applicare la propria teoria a tutta la realtà...

    Nell'ambito del positivismo (priorità cronologica a parte) possiamo far rientrare l'utilitarismo, la cui attenzione è però rivolta principalmente alle questioni di carattere etico, e in particolare al tema della felicità, che è la meta a cui tutti gli uomini, seppure in modi diversi, tendono in modo spontaneo. Tuttavia, per una serie di motivi che sarebbe troppo lungo enumerare (ma che ciascuno può benissimo individuare da sé), la felicità di un individuo (suo malgrado o meno) sembra spesso dipendere dall'infelicità di qualcun altro.




    Partendo da questo dato di fatto, e probabilmente stimandolo ineluttabile, Jeremy Bentham (1748-1832) aveva formulato il principio della massima felicità per il maggior numero possibile di persone. Egli vide chiaramente che tutte le azioni umane sono mosse da un duplice movente: conseguire il piacere (parola da lui usata come sinonimo di felicità) ed evitare il dolore, e ritenne di poter calcolare esattamente la quantità complessiva di piacere o di dolore che le varie azioni possono procurare. Ebbene, la morale e la legge devono risultare "utili" in questa direzione, cercando non di annullare gli egoismi individuali ma di armonizzarli in vista dell'utile comune. Ma a questo proposito Bertrand Russell, nella sua celeberrima Storia della filosofia occidentale, ha giustamente osservato che "c'è un'ovvia lacuna nel sistema di Bentham: se ogni uomo persegue sempre il proprio piacere, come possiamo esser sicuri che il legislatore perseguirà il piacere dell'umanità in generale?".




    John Stuart Mill (1806-1873) corresse la concezione quantitativa di Bentham, riguardo al piacere e al dolore, sostenendo che questi sono fatti soggettivi, irriducibili ad un calcolo "algebrico":

    preferirei essere un Socrate malato che un maiale contento,

    scrisse infatti Mill, per il quale il piacere intelligibile è dunque superiore a un piacere materiale. Questa superiorità non è tuttavia dimostrabile se non come sensazione soggettiva; infatti, oggettivamente, come si fa a stabilire se il piacere che molti (me compreso) provano ascoltando una canzone di De André sia più grande ed intenso del piacere che il mio amico Giorgio ed io stesso proviamo sorseggiando un bicchiere di barolo?