• Quando si erge contro il potere e i suoi abusi e soprusi, De André evita generalmente il ricorso all'invettiva e al tono accusatorio, ed usa piuttosto le armi del dileggio e del sarcasmo, memore forse (o anche) della lezione dell'amato Villon, le cui "risate scomposte" servivano "a schermare inauditi dolori".
    Tale atteggiamento – che si potrebbe quasi definire preideologico, cioè connaturato, spontaneo – si evidenzia fin dagli esordi nell'opera deandreana, come attesta appunto Carlo Martello, un brano scritto a quattro mani con l'amico Paolo Villaggio e indicato da Andrea Podestà come "il testo che meglio riassume le caratteristiche del primo De André: grande abilità narrativa, riferimenti storici e letterari, alternanza di un registro aulico e uno basso, grande uso della rima, figure retoriche ricercate".

    Carlo Martello – l'eroe che nella battaglia di Poitiers del 732 (oggi peraltro ridimensionata dagli studiosi nella sua portata storica) frenò l'avanzata musulmana in Occidente – viene qui trasformato da invitto condottiero in vittima ingenua di una "pulzella" dalle gentili sembianze e dai modi casti, alla quale egli esibisce il suo "volto da caprone" come sicuro elemento di persuasione ai fini amorosi. Tanto che l'iniziale irrigidimento della fanciulla, che è poi in realtà una prostituta, si tramuta in esplicito consenso alle "bramosie d'amor" del sovrano.

    [omissis]

    De André ebbe a dichiarare in un'intervista:

    "In Carlo Martello ho voluto dimostrare che la pretesa santità di costumi che molti riferiscono al Medioevo non fu in pratica che pura apparenza; in realtà la corruzione c'era quanto oggi."

    Questa affermazione evidenzia il profondo legame che De André ha sempre mantenuto con le problematiche attuali, anche quando sembra rivolgersi al passato. L'abuso di Carlo, infatti, è frutto della prepotenza tipica del potere di ogni tempo e luogo, e in quanto tale implica una condanna morale che trascende l’aneddoto e assume una valenza assoluta.
    Tuttavia, un'analisi oggettiva del testo – senza che per ciò venga intaccato il giudizio generale espresso dall'autore sull'età medievale – sembra portare a conclusioni e suscitare reazioni diverse: nel senso che indubbiamente un re infoiato, ansioso di placare in fretta i suoi impulsi erotici, perde in regalità e prestigio, inducendo più al sorriso che all'irritazione, ed acquistando così, nonostante il comportamento da "gran cialtrone", in umanità e simpatia. Senza contare che, attraverso l’irrisione di un suo illustre rappresentante, il potere viene teoricamente svilito e depotenziato, e trasferito in tal modo da un'ipotetica ascendenza divina a una dimensione prettamente umana: un "Sire" che esercita il proprio potere per ottenere i favori di una prostituta non può più incutere paura a nessuno. E così va a finire che il vero bersaglio polemico di questa satira – al di là delle intenzioni dell'autore – diventa l'opportunismo della "pulzella", che, da mistificatrice, finisce per essere vittima del voglioso sovrano il quale, dopo essersi sollazzato a dovere, vilmente ed abilmente si dilegua.

    [omissis]