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          Cchi ci arrivè a la Ravatèna
          si nghiànete 'a pitrizza
          ca pàrete na schèa appuntillèta
          a na timpa sciullèta.
    
      5  Quanne un tempe è sincire,
          atturne atturne 'a terra d'i iaramme
          ci ampìete a lu sòue com'u specchie,
          e quann si fè notte c'è nu frusce
          di vent ca s'ammùccete nd'i fossi
     10  e rivìgghiete u cuc e ci fè nasce
          nu mère d'erve.
    
          Pòuri cristieni,
          ci durmìne cch'i ciucci e cch'i purcelli
          nda chille chèse nivre com'i forchie;
     15  pur mo lle chiàmene "biduini"
          cc'amore ca su' tristi e fène a sgrògnue   
          a piscunète e a lème di curtèlle.
    
          Alledàvete c'è aria fina
          quann vènete 'a steta;
     20  e nun mpòrte si po ci fène 'a fera
          e chiàmene u taute i cuc-uelle;
          l'avèreva viré chille ca fène
          i Ravitanesi quann c'è na zita:
          vi ndippèrese i ricchie cchi nun sènte
    25  catarre mandulini e colp-scuri
           scamizzi di uagnuni e d'urganètte
          e battarie e troni di tammure.
    
          Ma iè le vogghie bbene 'a Ravatèna
          cc'amore ca c'è morte mamma mèja:
     30  le purtàrene ianca sup' 'a seggia
          cchi mmi nd'i fasce com'a na Maronna
          cc'u Bambinèlle mbrazze.
    
          Chi le sàpete u tempe c'è passète...
          e nun tòrnete ancore a lu paàzze.
    
    
    
          Per arrivarci alla Rabatana
          si sale un pietrame
          che sembra una scala puntellata
          su una parete in crollo.
    
      5  Quando il tempo è sereno,
          tutt'attorno la terra dei burroni
          lampeggia al sole come fa uno specchio,   
          e quando si fa notte c'è un fruscìo
          di vento che nei fossi si nasconde
     10  e risveglia il cuculo e fa spuntare
          un mare d'erba.
    
          Povera gente,
          ci dormiva con gli asini e i porcelli
          in quelle case nere come tane;
     15  e ancora adesso li chiamano "beduini"
          perché sono violenti e fanno a pugni,
          a sassate e a colpi di coltello.
    
          Lassù c'è aria fina
          quando giunge l'estate;
     20  e non importa se poi fanno schiamazzi
          e le civette chiamano la bara;
          lo dovreste vedere cosa fanno
          i Rabatanesi quando ci son nozze:
          le orecchie otturereste, per non sentir
     25  chitarre mandolini e mortaretti
          strepiti di fanciulli e di organetti
          e batterie e tuoni di tamburo.
    
          Ma io alla Rabatana voglio bene
     30  la portarono bianca su una sedia
          con me in fasce, come una Madonna
          col Bambinello in braccio.
    
          Chi lo sa mai il tempo ch'è passato...
          e non ritorna ancora al suo palazzo.
    
    
    [In 'A terra du ricorde, Il Nuovo Belli, Roma 1960, pp. 17-18]

    COMMENTO
    Siamo davanti a un testo di alta compostezza formale, che sublima in partecipe canto il pianto della materia.
    La "Rabatana" è la zona più alta di Tursi (in Basilicata): la meno progredita, la più legataalle tradizioni antiche, ai tabù e alle pratiche superstiziose. È un paese nel paese. Ed è il primo "ricordo" che risale alla mente del poeta ripensando al suo borgo natio. Dopo una prima parte descrittiva, di un paesaggio rivissuto in tutta la sua precarietà, il momento sentimentale: il pensiero a quella gente costretta a vivere con gli animali in squallidi tuguri, e destinata così a divntare rissosa e violenta. E nonostante tutto, i momenti di gioia nonmancano in questo microcosmo di dolore. Un matrimonio, ad esempio, che il poeta descrive con icastica precisione, e dove l'effetto ritmico di alcuni versi:

    "catarre, amndulini e colp-scuri
    scamizzi di uagnuni e d'urganètte
    e battarie e troni di tamure

    rende l'atmosfera un po' folle della festa gioiosa, quasi un momento di liberazione dall'atroce quotidianità. Infine, nelle ultime due strofe, il momento affettivo più intimo: l'immagine struggente della madre-Madonna, vagheggiata più che ricordata s'ella lasciò ancora bimbo il poeta. Io credo non sia eccessivo affermare che questa esperienza traumatica abbia prodotto in Pierro un'avidità d'amore inappagabile, un bisogno d'affetto inestinguibile e perciò sempre precluso.
    Ma torniamo alla lirica. Non c'è dubbio che con questa poesia siamo di fronte a uno dei punti più fermi e sicuri di tutta la produzione poetica di Pierro. Innanzitutto perché vi è in essa una varietà d'aspetti quali mai o di rado si poteva registrare, per una singola composizione, nella poesia in lingua; e inoltre tutti, tali aspetti, sono resi magistralmente nella potenza emblematica delloro realismo: il paesaggio, così vero eppure fantastico; il binomio amoremorte (che avrà tanta parte negli sviluppi della poesia di Pierro), sostenuto dalla figura casta e sfortunata della madre; e infini un interesse quasi sociologico per le genti di quel luogo (ma che più probabilmente è partecipazione cristiana, umana in genere, alla loro amara vicenda).
    Quanto agli elementi formali, notiamo che in dialetto tursitano sono assonanti o rimano termini come "sale" (verbo) e "sembra" ("nghiànete" / "pàrete"), "mortaretti" e "tamburi" ("colp-scuri" / "tammure"), "in braccio" e "palazzo" ("mbrazze" / "paàzze"). E possiamo notare, accanto agli inusitati gruppi consonantici iniziali ("nghiànete", "mporte", "ndippèrese", "mbrazze"), il fonema /t/ mantenuto con valore flessionale ("pàrete", "sàpete", "tòrnete"). E un'altra cosa va detta subito, che non risulta, non utilizzando egli una trascrizione eruditamente fonetica, dalla scrittura di Pierro: vale a dire l'indistinta pronuncia della vocale finale. Quanto allo schema strofico e metrico del componimento, la sua struttura è liberissima, come sarà sempre in questa seconda e feconda stagione della poesia pierriana. E per i singoli versi, ch epur vanno dall'endecasillabo al novenario, dal settenario al quinario, non mi sembra che qui si risconri quella "tendenziale soggezione ai modevlli in lingua" di cui ha parlato in generale Mengaldo per la poesia dialettale del Novecento (P.V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Feltrinelli, Milano 1975, p. 137). Nella "necessità" delle parole di Pierro, infatti, non ha tanto valore il rispetto sillabico dei versi quali li ha consacrati la tradizione, quanto il tracciato accentuativo, il movimento sintattico, la pregnanza semantica, che strutturano "naturalmente" il verso senza una volontà artificiosa da parte del poeta. Per rendere pienamente ragione di questa impressione sarebbe fondamentale la dizione del poeta stesso, che sapeva dare efficace risalto ai valori prosodici del suo dettato. Ma sarebbe ingiusto pensare (come più o meno esplicitamente pensano i lettori di Pierro) che il merito di questa intima novità all'interno di forme consuete vada assegnato pressoché esclusivamente agli attributi peculiarissimi del nuovo linguaggio, alla loro potenza espressiva e valenza fonica, e poco o niente all'officina di Pierro. Con questo dialetto si possono infatti produrre cose pessime, come hanno mostrato loro malgrado alcuni baldi giovani tursitani nell'intento di emulare e diffondre le "gesta" dell'illustre erede di Orazio.