• Sidun (Sidone) è il nome di una città del Libano distrutta dai carri armati israeliani nell'estate del 1982.

    I conflitti in Medio Oriente colpiscono profondamente Fabrizio, che riconosce in quella terra la culla della civiltà mediterranea e lo portano a comporre, insieme a Mauro Pagani, la sua canzone pacifista più dure. L'atrocità della guerra è narrata da un padre che vede il proprio bambino massacrato dai cingolati, ridotto ad un "grumo di sangue, orecchie / e denti di latte". È il dolore più grande e rappresenta il dramma di tutto un popolo. Per la prima volta il nemico si identifica con il cattivo; non c'è alcuna assoluzione da parte del padre per gli occhi dei "soldati cani arrabbiati / con la schiuma alla boicca / cacciatori di agnelli / ... / finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia / e nelle ferite il seme velenoso della deportazione / perché di nostro dalla pianura al molo / non possa più crescere albero né spiga né figlio.
    Questa eredità di dolore viene nascosta sotto le macerie della città in fiamme e nella solitudine di un tramonto di fuoco, davanti al quale si libera il lamento struggente che dura fino alla fine della canzone.
    A tratti il brano assume i contorni di una ninna-nanna, (...) quasi a cercare di far addormentare il figlio che non si può più svegliare.
    [Matteo Borsani – Luca Maciacchini, Anima salva, Tre Lune, Mantova, 1999, pp. 137-138]


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    Due anni prima, settembre 1982, le milizie cristiano-libanesi appoggiate dall'esercito israeliano fanno irruzione nell'indifeso campo profughi palestinese di Sabra e Shatila provocando centinaia di morti, forse migliaia. Fabrizio De André racconta, in un agghiacciante reportage, la piccola tragica storia di un uomo arabo che tiene in mano i rimasugli del figlioletto triturato da un carrarmato che sta procedendo verso Sidone (Sidún), a sud di Beirut. "Spremmûu 'nta maccaia de stäe, de stäe / e oua grûmmu de sangue, ouëge e denti de læte" ("Spremuto nell'afa umida dell'estate / e ora grumo di sangue, orecchie e denti da latte"). Fabrizio dà un resoconto di respiro storico: "Sidone è la città libanese che ci ha regalato, oltre all'uso delle lettere dell'alfabeto, anche l'invenzione del vetro. Me la sono immaginata, dopo l'attacco subito dalla truppe del generale Sharon, come un uomo arabo di mezza età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato". La canzone si apre con le voci concilianti del generale Ariel Sharon, futuro premier di Israele, e del Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, coperte dagli applauusi e dal rumore dei cingolati in arrivo. L'oud di Pagani intona un lamento intrecciandosi alla voce accorata di De André che trova nuove sfumature per raccontare un dolore atroce e silenzioso, "una desolazione cosmica", la definisce Cesare Romana. Mauro Pagani si spinge a dire che con questo brano "Fabrizio, che riteneva Sidún la cosa più bella che avesse scritto, smise di fare il cantautore e cominciò a fare il cantante". Il brano è talmente intenso che provoca un male quasi fisico e non basta il dialetto incomprensibile per coprire la coscienza. "Fabrizio non voleva parlare necessariamente di quella guerra", ricorda Dori, "ma dell'assurdità di tutte le guerre". La ballata dell'eroe, La guerra di Piero, Girotondo, Andrea e ora Sidún, per un cerchio di morte, potere e volgarità, riassunta nell'ultimo desolato saluto al figlio ridotto in poltiglia: "Ciao, mæ nin / l'ereditäe l'è ascusa 'nte 'sta çittäe / ch'a brûxa, ch'a brûxa inta seia che ghin-a / e in 'stu gran ciæu de feugu / pe a teu morte piccin.a": "Ciao, bambino mio / l'eredità è nascosta in questa città / che brucia, che brucia nella sera che scende / e in questo grande cielo di fuoco / per la tua piccola morte".
    [Federico Pistone, Tutto De André, Arcana, 2018, pp. 174-175]