• Questa sezione è dedicata ai principali termini di metrica e di retorica, utili per la comprensione degli aspetti tecnici e stilistici della poesia. Essa, pur non avendo alcuna pretesa di completezza, si propone come un semplice ma utile strumento per aiutare il neofita nella comprensione dell'analisi dei testi.


    ACCENTO RITMICO (o ICTUS). Ogni parola italiana ha un accento tonico principale, e le singole parole, a seconda della posizione di tale accento, che va dall'ultima alla quart'ultima sillaba, si dicono rispettivamente: tronche, piane, sdrucciole, bisdrucciole. Tuttavia, anche quando si parla normalmente, non si rispettano gli accenti di tutte le parole: nessuno pronuncia ad es. "Vàdo à Milàno"; nella pronuncia reale l'accento sulla preposizione "a" viene generalmente eliminato ("Vàdo a Milàno"). Lo stesso accade ovviamente in poesia: non "Sèmpre càro mì fù quèst’èrmo còlle", ma "Sempre càro mi fù quest’èrmo còlle".
    L'accento che marca alcune sillabe nella struttura del verso si chiama accento ritmico, o ictus. Gli ictus si alternano in vario modo con le sillabe atone, costituendo così il ritmo del verso. Non è detto però che l'ictus coincida sempre con l'accento tonico. Se prendiamo per esempio il verso di Lorenzo de' Medici: "Quant'è bella giovinezza", notiamo che l'accento metrico del verbo risulta debolissimo. La scansione è infatti: "Quant'e bèlla giòvinèzza".


    ACCUMULAZIONE. Figura retorica consistente nell'enumerazione disordinata e confusa di oggetti, stati d'animo, azioni, immagini... tipica della poesia contemporanea ma già presente nella lirica del passato. Ad es.in Petrarca: "[L'alma sbigottita] or ride, or piange, or teme, or s'assecura".


    ACRÒSTICO. Dal greco àkron = "estermità", e stìchos = "verso"). È un componimento poetico (spesso un sonetto) le cui lettere iniziali di ogni verso, prese verticalmente, compongono una parola o una frase o un nome.


    ADYNATON. Termine greco che significa "cosa impossibile". Si tratta di un tipo particolare di iperbole, che consiste nel dichiarare l'impossibilità che si realizzi un evento ipotizzando per assurdo la realizzazione di un altro fatto che non potrà mai verificarsi. Ad es. in Cielo d'Alcamo (Contrasto, vv. 7-9): "Lo mar potresti arompere, i venti asemenare, | l'abere d'esto secolo tut[t]o quanto asembrare: | avere me non pòteri a esto monno".


    AFÈRESI. Dal greco apháirein = "togliere via". Fenomeno fonetico consistente nella soppressione di uno o più fonemi all'inizio di una parola. Ad es. in Dante: "lo 'mperador del doloroso regno". L'aferesi è un fenomeno tipico della lingua letteraria, ma si verifica anche nella lingua comune, come ad es. nella riduzione dei nomi propri: Teo per Matteo, Sandro per Alessandro.


    ALBA. Genere lirico provenzale, non riconducibile a un particolare modello metrico, che ha come contenuto il lamento degli innamorati costretti a separarsi al sopraggiungere dell'alba.


    ALESSANDRINO. Tipo di verso che trae il nome dal Roman d'Alexandre, un romanzo francese del XII secolo. Sia in francese che in provenzale è composto da due esasillabi (hexasyllabe) entrambi con accento sulla sesta. Nella metrica italiana, all'esasillabo (proprio per l'accento di sesta) corrisponde il settenario. L'alessandrino fu adattato all'italiano, in forma di doppio settenario, da Pier Jacopo Martello (o Martelli), è detto anche "martelliano".


    ALLEGORIA. Dal greco allegoría "= "parlare diversamente" (állon = "altro", e agoréuo = "dico"). Figura retorica mediante la quale un termine (denotazione) si riferisce a un significato più profondo e nascosto (connotazione). Ad es., il Veltro dantesco, a livello denotativo, significa "cane da caccia", ma è noto che questo termine allude a un "riformatore spirituale". Un'allegoria tra le più note è quella del destino umano paragonato ad una nave che attraversa il mare in tempesta, fra venti, scogli, ecc.; come in Carducci: "Passa la nave mia, sola, tra il pianto / de gli alcïon, per l'acqua procellosa; / e la involge e la batte, e mai non posa, / de l'onde il tuon, de i folgori lo schianto" (Juvenilia, libro III, 1851).
    Il problema della comprensione delle allegorie dipende dalla loro maggiore o minore codificazione: ad es., una donna bendata con una spada o una bilancia è ormai un'immagine codificata della Giustizia.


    ALLITTERAZIONE. Figura retorica di tipo morfologico, consistente nella ripetizione di uno o più fonemi uguali in più parole consecutive o molto vicine. Come in Petrarca: "di me medesmo meco mi vergogno", o in Foscolo: "quello spirto guerrier ch'entro mi rugge". Casuale nella lingua comune (ad es. "Mia mamma mangia una mela"), l'allitterazione è frequente nei messaggi pubblicitari, dove ha la funzione di favorire la memorizzazione nell'ascoltatore. Ad es.: "Mangia le mele Melinda".


    ANACOLUTO. Dal greco anakòlūthos = "che non segue". Si tratta di un errore sintatticospesso provocato dal cambiamento di soggetto nel corpo dell'enunciato. Celeberrimo è l'anacoluto manzoniano: "Noi altre monache, ci piace sentir le storie per minuto".


    ANACREÒNTICA. Tipo di canzonetta sviluppatasi in Italia nella seconda metà del '500 e proseguita fino al '700, a imitazione delle composizioni greche di Anacreonte. Di contenuto per lo più erotico, ebbe come suoi maggiori cultori Chiabrera in Italia e Ronsard in Francia.


    ANADIPLOSI. Dal greco anadíplosis = "raddoppiamento". Figura retorica consistente nella ripresa, all'inizio di un verso o di una frase, di una o più parole di chiusura del verso o della frase precedente. Come in Quasimodo: "Invano cerchi tra la polvere, / povera mano, la città è morta. / È morta...". Oppure in Fenoglio: "In lui tutto era lento, lento era il movimento delle labbra, lento era il roteare degli occhi". In quest'ultimo esempio possiamo notare la combinazione di anadiplosi e anafora.
    L. Galdi la denomina epanàfora (Introduzione alla stilistica italiana, Patron, Bologna 1971).


    ANÀFORA. Dal gr. anaphorà = "ripetizione". Figura retorica consistente nella ripetizione di una o più parole all'inizio di più versi o enunciati successivi. Ad es. in Dante: "Per me si va nella città dolente, / per me si va nell'etterno dolore, / per me si va tra la perduta gente". Come l'allitterazione, anche l'anafora si presenta con frequenza nel linguaggio pubblicitario, per richiamare l'attenzione dell'ascoltatore. Ad es.: "Selenia, speciale formula Alfa Romeo... Selenia, il motore dei nuovi motori".


    ANALOGIA. Dal greco analogìa = "somiglianza, corrispondenza". Rapporto di somiglianza tra imagini o parole, basato su libere associazioni di pensiero o di sensazioni piuttosto che su nessi logici o sintattici codificati. Come l'ungarettiana "balaustrata di brezza" (Allegria di naufragi, "Stasera").


    ANAPESTO. Dal greco anápaistos, derivato di anapáiein = "battere al contrario" (poiché ha ritmo inverso rispetto al dàttilo). Nella metrica classica è il piede formato due sillabe brevi e una lunga (◡◡−): quindi è uno dei piedi ascendenti. Nella metrica italiana questo tipo di ritmo si ripropone, ad esempio, nel primo emistichio dell'Infinito leopardiano: “Sempre caro mi fu, dove gli accenti cadono sulla terza e sesta sillaba.


    ANASINALEFE. Fenomeno metrico per il quale una sillaba eccedente all'inizio di un verso iniziante per vocale si fonde (sinalefe) con l'ultima sillaba del verso precedente, terminante per vocale. Ad es. in Pascoli: "Pei bimbi che mamma le andava / a prendere in cielo." (Canti di Castelvecchio, "La figlia maggiore": l'ultimo verso è un quinario e la -a iniziale non viene computata perché c'è appunto anasinalefe con la vocale del verso precedente.


    ANÀSTROFE. Dal gr. anastréphein = "rovesciare". Tipo di inversione sintattica simile all'ipèrbato, dal quale si differenzia perché non implica l'inserimento di un inciso tra i termini. Ad esempio, in Leopardi: "Allor che all'opre femminili intenta / sedevi, assai contenta…" (A Silvia).
    L'anastrofe è molto diffusa anche nel linguaggio comune: ad es. "eccezion fatta", "a suo dire", "cammin facendo".


    ANISOSILLABISMO. Dal greco anà con valore privativo, e ìsos = "uguale", e syllabé = "sillaba", è il contrario di isosillabismo e indica irregolarità nella misura dei versi della poesia italiana delle origini. Un tipico esempio è il Cantico delle creature di San Francesco: "Laudato sie, mi Signore, cum tucte le tue creature: | spetialmente messor lo frate Sole, | lo qual'è jorno, et allumini noi per lui..." (il primo verso è di 17 sillabe metriche, il secondo di 11, il terzo di 12).


    ANNOMINAZIONE. Figura retorica consistente nell'accostamento di termini con uguale radice, ma diversa forma grammaticale. Famosissima l'annominazione dantesca: "Amor ch'a nullo amato amar perdona".


    ANTANÀCLASI. Dal greco antanáclasis = "ripercussione, rifrazione". Ripetizione di una parola con senso diverso. Es.: "Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce" (Blaise Pascal).


    ANTICLIMAX. Vedi climax


    ANTÌFRASI. Dal greco antíphrasis = "espressione contraria". Figura retorica consistente nell'usare un'espressione per significare l'opposto di ciò che in realtà si vuol dire. Si tratta di una figura molto usata anche nel linguaggio comune: ad es. "Bella giornata, oggi!" (per significare invece che c'è brutto tempo); "Hai fatto un bel lavoro!" (per dire invece che il lavoro è stato svolto male). Come si vede, l'antifrasi è per lo più utilizzata in senso ironico.


    ANTILABÉ. Dal greco antilambànomai = "mi interrompo". Termine usato per indicare il "verso spezzato", che ricorre nei testi drammatici quando su una stessa riga l'autore cede la parola a un altro personaggio. Tipico quindi del copione teatrale e del libretto d'opera, si incontra anche nei testi lirici, dove è in genere impiegato per interrompere la cantabilità del verso evitando un eccessivo "lirismo". Ad es. in Umberto Saba:
    "Spunta la luna.
                          Nel viale è ancora
    giorno, una sera che rapida cala.
    Indifferente gioventù s'allaccia;
    sbanda a povere mete.
                                    Ed è il pensiero
    della morte che, infine, aiuta a vivere."
    (Sera di febbraio)


    ANTIMETÀTESI. Dal greco antimetàthesi = "inversione". Figura logica basata sulla disposizione a chiasmo di due o più parole, come nel famoso adagio salernitano: "mangia per vivere, e non vivere per mangiare"; o nell'aforisma di Pascal: "non potendo fortificare la giustizia si è giustificata la forza".


    ANTÌTESI. Dal greco antíthesis = "contrapposizione". Figura di carattere logico che accosta concetti opposti o fortemente divergenti. Ad es.: "Non fronda verde ma di color fosco" (Dante, Inferno, XIII); "Pace non trovo e non ho da far guerra; | e temo e spero; e ardo e sono un ghiaccio..." (Petrarca, Canzoniere); "Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio..." (Foscolo, Non son chi fui; perì di noi gran parte).


    ANTONOMÀSIA. Dal greco antonomàzo = "chiamo con nome diverso". Figura retorica consistente nella sostituzione del nome di una persona o di una cosa con un nome più generico o comune, con un epìteto (aggettivo) o con una perifrasi. Alcuni esempi: "il segretario fiorentino" (Machiavelli), "il padre della lingua italiana" (Dante), "la città celeste" (il Paradiso), "il principe delle tenebre" (il diavolo), "l'eroe dei due mondi" (Garibaldi), "il sommo bene" (Dio).


    APÒCOPE. Dal greco apokopé = "taglio". Fenomeno fonetico consistente nella eliminazione di uno o più fonemi alla fine di una parola. Ad es. in Dante: "E come i gru van cantando i lor lai".


    APOSIOPESI. Detta anche reticenza. Dal greco, significa "cessar di parlare". Figura retorica che consiste nell'interrompere di proposito il discorso per invitare l'ascoltatore a completarne il senso e ad aggiungere le proprie idee e sensazioni.


    APÒSTROFE. Dal greco apostrophé, da apostréphein = "volgere indietro, rivolgersi"). Figura retorica con la quale chi parla rivolge direttamente la parola a concetti personificati, a soggetti assenti, o anche al lettore. Quando è accompagnata da toni violenti, ironia o sarcasmo, è detta invettiva. Ad es. Leopardi: "O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? / perché di tanto / inganni i figli tuoi?" (A Silvia, vv.36-39).


    ASÌNDETO. Dal greco asýndeton = "senza legame". Accostamento di parole o frasi senza l'ausilio di particelle congiuntive o disgiuntive. Ad es. Manzoni, parlando di don Abbondio: "vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì, si infuriò, pensò, prese una soluzione".


    ASSONANZA. Somiglianza di fonemi tra due o più parole, a partire vocale tonica. Si usa distinguere in:
    1. assonanza tonica quando sono uguali le vocali ma non le consonanti (es. "climi / mattin");
    2. assonanza atona quando cambia soltanto la vocale tonica (es. "puro / giro");
    3. assonanza consonantica, o più semplicemente consonanza, quando vi è uguaglianza di suoni soltanto nelle consonanti (es. "colla / bello").
    4. rima imperfetta quando, in sede di rima, cambia soltanto il fonema finale (es. "trasparènze / essènza").


    BALLATA (o CANZONE A BALLO). Componimento poetico di origine provenzale destinato a essere cantato e ballato (balada o dansa).
    Ignorata dai Siciliani, in Italia comparve attorno alla metà del XIII secolo con gli Stilnovisti. La forma più definita presenta endecasillabi e settenari, ed è composta da un certo numero di strofe di identito schema, ciascuna preceduta da un ritornello detto anche ripresa. Nello schema metrico i versi della ripresa sono convenzionalmente indicati con le ultime lettere dell'alfabeto (w, x, y, z), e l'ultimo verso della ripresa rima obbligatoriamente con l'ultimo verso della strofa (o stanza).
    Il modello base presenta la strofa divisa in quattro parti, tre delle quali identiche e dette piedi, e una quarta detta volta, legata per una rima alla ripresa:
    ESEMPIO:
    XX ripresa
    AB 1° piede
    AB 2° piede
    AB 3° piede
    BX volta
    Categorie di ballata, secondo la ripresa, sono:
    - stravagante: più di quattro endecasillabi
    - grande: quattro endecasillabi o endecasillabi/settenari
    - mezzana: tre endecasillabi o endecasillabi/settenari
    - minore: due endecasillabi o endecasillabi/settenari
    - piccola: un endecasillabo
    - minima: un settenario.


    BARZELLETTA. Metro sullo stesso schema della ballata ma composto escusivamente da ottonari, con ripresa generalmente di quattro versi. Forma metrica di intonazione popolaresca, con accompagnamento musicale, in voga soprattutto nella metà del XV secolo (ad es. la Canzona di Bacco e Arianna, di Lorenzo il Magnifico).


    BISILLABO. Verso il cui unico accento cade sulla prima sillaba: può essere composto da una sola sillaba, se tronco, da due se piano, da tre se sducciolo, da quattro se bisdrucciolo.


    BISTICCIO. Gioco di parole che si ottiene avvicinando due o più parole foneticamente affini (ad es. "Laura /l'aura").


    CALEMBOUR. In francese, "gioco di parole, freddura". Gioco di parole che risulta dall'accostamento o dallo scambio di termini affini o uguali per suono o per grafia (omofoni e omografi), ma di diverso significato. Ad es.: "Prego, signora, si metta in liberty". Anche nella pubblicità: "Cipro. Un amore reciproco". O addirittura una barzelletta: "Conversazione nel paradiso terrestre. Adamo (rivolto ad Eva): Come va? Eva: Non c'è mele!"


    CANZONE. La forma più illustre di componimento lirico. I poeti siciliani ripresero il modello della canso provenzale, che venne successivamente elaborato dagli stilnovisti per assumere una struttura definitiva con Petrarca.
    La canzone classica consta di cinque o più strofe o stanze. Le stanze hanno rime diverse, ma ogni singola stanza è composta da due elementi: la fronte e la sirma. La fronte si divide in due piedi, mentre la sirma può essere indivisa oppure composta da due volte. I versi usati sono il settenario e l'endecasillabo. Fra sirma e fronte può inserirsi un verso che rima con l'ultimo della fronte: tale verso è detto chiave. La canzone termina con una stanza denominata commiato o congedo, che può essere identico alle altre stanze oppure costituito di:
    - un gruppo di versi esattamente corrispondenti alla sirma
    - un gruppo di versi corrispondenti a una parte della sirma
    - un gruppo di versi legati in modo autonomo.
    ESEMPIO:
    A
    B   1° piede
    B
    C
                      fronte
    A
    B
    B   2° piede
    C
                                 stanza
    C
    D   1° volta
    D
                      sirma
    C
    E   2° volta
    E
    Nelle sue origini trobadoriche, la canzone era un genere poetico musicato e cantato, ma nel suo trasmettersi in Sicilia, cessò di essere poesia per musica e divenne esclusivamente poesia per lettura.


    CANZONE LIBERA (o LEOPARDIANA). . Forma metrica che consiste nella dissoluzione dello schema metrico della canzone tradizionale, di cui conserva solo la divisione in strofe. Prima di Leopardi, analoghi tentativi di liberazione dalle regole metriche furono operati in particolare da alcuni poeti del Seicento.


    CARME. Indica un genere letterario non meglio definito. Foscolo usa questo termine per i suoi Sepolcri.


    CATACRÉSI. Dal greco, katàchresid = "abuso". Metafora entrata nell'uso comune e che quindi non viene più percepita come tale: ad es "collo di bottiglia", "piedi del tavolo", "denti del pettine".


    CATÀFORA. Si ha quando una parola che normalmente sarebbe posta all'inizio della frase, perché soggetto, viene invece posta alla fine. Ad es in Foscolo: "baciò la sua petrosa Itaca Ulisse".


    CESURA. Pausa ritmica all'interno del verso, in corrispondenza dell'accento ritmico più importante dopo quello fisso alla fine del verso (cioè sulla penultima posizione. La cesura ha un particolare rilievo nell'endecasillabo, dove il verso risulta diviso in due parti dette emistichi.


    CHIASMO. Dal greco khiasmós = "collocazione in forma di croce", dalla lettera greca X, che si pronuncia "chi"). Figura di costruzione sintattica che consiste nella disposizione incrociata degli elementi di una frase, in modo che l'ordine logico delle parole risulta invertito. L'esempio più famoso è forse l' incipit dell'Orlando furioso di Ludovico Ariosto: "Le donne, i cavallier, l'arme, gli amori...". Altri casi mostrano il succedersi di sostantivo-aggettivo, aggettivo-sostantivo: "con tonfi spessi e lunghe cantilene" (Pascoli, Lavandare), oppure sostantivo-verbo, verbo-sostantivo: "odi greggi belar, muggire armenti" (Leopardi, Il passero solitario, v.8).


    CLIMAX. Dal greco, significa "scala". Procedimento retorico che consiste nella disposizione di frasi, sostantivi e aggettivi in una progressione "a scala", cioè secondo una gradazione ascendente, creando un effetto progressivamente più intenso: ad es. buono, migliore, ottimo (dal grado normale dell'aggettivo si passa al grado comparativo e infine a quello superlativo). Un simile procedimento risulta particolarmente efficace soprattutto in poesia, dove l'intensificazione del concetto attraverso la progressione naturale dal vocabolo più debole al più forte è incrementata in modo significativo dai valori fonici e ritmici delle parole, come si verifica nella chiusa dell'Infinito leopardiano: "Così tra questa | immensità s'annega il pensier mio: | e il naufragar m'è dolce in questo mare", in cui si attua una gradazione discendente (anticlimax) attraverso "immensità - s'annega - naufragar", che anche riproducono un processo di progressivo abbandono della mente.


    CONGEDO. In metrica, la strofa conclusiva di una canzone.


    CONNOTAZIONE. L'insieme di proprietà che arricchiscono il significato di una parola con un valore allusivo, emozionale, evocativo, al di là del suo specifico valore denotativo. La connotazione è tipica del linguaggio poetico. Così, il termine "cuore" può essere inteso non solo nel suo significato denotativo (organo muscolare che costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio), ma anche nel significato metaforico, e quindi connotativo perché arricchito e ampliato rispetto a quello letterale, come sede di affetti ed emozioni.


    CONTRASTO. Genere poetico caratterizzato da un dibattito tra due entità (allegoriche o reali) che parlano in due registri diversi. Un esempio celeberrimo è Rosa fresca aulentissima di Cielo d'Alcamo.


    CRASI. dal greco krásis = "mescolanza". Fusione di due parole in una: artificio molto diffuso nella lingua della pubblicità e nel linguaggio giornalistico. Ad es. Confesercenti, Federcalcio, Palasport, militesente.


    DÀTTILO. Dal greco dáktylos = "dito". Nella metrica classica, piede formato da una sillaba lunga e due sillabe brevi: _◡◡.


    DECASILLABO. Verso il cui ultimo accento finale cade sulla nona sillaba (solo raramente si trovano decasillabi tronchi o sdruccioli). Si chiama decasillabo anapestico (che è il più diffuso, usato anche dal Manzoni) quello in cui gli accenti sono sulla terza, sesta e nona sillaba; decasillabo trocaico quello in cui sono sulla terza, settima e nona.


    DECIMA RIMA. In metrica italiana, strofa di dieci endecasillabi con schema ABABABCCCB, usata nella letteratura delle origini.


    DENOTAZIONE. Indica il valore referenziale (informativ) di un termine linguistico, escludendo dunque qualsiasi elemento di giudizio personale e qualsiasi elemento emotivo, e definisce l'oggetto nel suo valore semantico, senza in alcun modo intervenire su di esso con un sovrasenso "connotativo". Ciò significa ad es. che la parola "cuore", a livello denotativo, non avrà altro significato che quello fornito dal vocabolario: "organo muscolare che costituisce il centro motore dell'apparato circolatorio".


    DIACRÌTICO. Segno grafico che indica il suono da attribuire ad una certa lettera dell'alfabeto (ad es. "canto", "cantò"). Anche una lettera puòessere un segno diacritico: la /i/ di "giallo" non è propriamente una vocale ma solo un segno che indica al lettore la pronuncia palatale di /g"/.


    DIALEFE. Dal greco dialeìpho = "separo". Figura metrica consistente nel tenere distinte, in due diverse posizioni, due vocali contigue ma appartenenti a due parole diverse. Ad es. in Cavalcanti: "Di ciascuna vertù - alta e gentile". Non c'è una regola precisa per l'applicazione della dialefe, ma in genere si tende a rispettarla in casi come quello citato (cioè quando si incontrano due vocali entrambe toniche).


    DIÀSTOLE. Nella versificazione italiana è lo spostamento dell'accento per ragioni ritmiche o rimiche, in direzione della fine della parola. Per esempio in Cleopatràs per Cleopàtra.


    DIÈRESI. Dal greco diairéo = "disgiungo, separo". Figura metrica consistente nel tenere distinte in due diverse posizioni due vocali contigue in corpo di parola. Ad es. in Foscolo: "Forse perché della fatal quï-ete". O in Leopardi: "Un mazzolin di rose e di -ole". Non vi sono regole veramente fisse per la sua applicazione; è comunque obbligatoria in due casi: 1) alla fine del verso; 2) quando una vocale aspra (a, e, o) è seguita da una qualunque vocale tonica.


    DÌSTICO. La strofa più piccola, composta da soli due versi a rima baciata


    DITTOLOGIA. Con questo termine si fa riferimento a una struttura linguistica costituita da due elementi della stessa categoria, uniti dalla congiunzione "e". Per es. in Petrarca: "Solo e pensoso i più deserti campi / vo mesurando a passi tardi e lenti".


    DITTONGO. Gruppo di due vocali pronunciate con una sola emissione di fiato, e perciò appartenenti a una stessa sillaba. Quando le vocali pronunciate allo stesso modo sono tre, si parla di trittongo. In poesia, il dittongo e il trittongo possono essere scissi per effetto della dieresi.


    DODECASILLABO. Dal greco dodecasyllăbus = "dodici (dodeka) sillabe (syllabé)". Verso di dodici sillabe metriche, detto anche "senario doppio o accoppiato" perché risulta di solito dall'unione di due senarî, di cui il primo sempre piano. Perciò ha per lo più gli accenti ritmici sulla seconda, quinta, ottava e undecima sillaba, con cesura dopo il primo senario. Utilizzato da Manzoni in Adelchi, III: "Dagli atri muscosi, dai fori cadenti".


    ELISIONE. Caduta della vocale finale di una parola davanti ad altra parola iniziante per vocale. Ad es. in Dante: "Quand'io m'ebbi dintorno alquanto visto", in cui in cui le due elisioni presenti non incidono sul computo sillabico del verso, per il quale sarebbero state sufficienti anche due sinalefi.


    EMISTICHIO. Dal gr. hemistìchion = metà (émi) e verso (stichos). Ciascuna delle due parti in cui un verso (in particolare l'endecasillabo risulta diviso dalla cesura. Ad es. in Leopardi: "Sempre caro mi fu | quest'ermo colle"; o in Dante: "Lo giorno se n'andava | e l'aere bruno" (dove peraltro notiamo che fra i due emistichi vi è sinalefe).


    ENÀLLAGE. Dal greco enallagé = "cambiamento, scambio interno". Figura retorico-grammaticale che consiste nell'usare una parte del discorso al posto di un'altra. Lo scambio può avvenire tra i vari modi e tempi del verbo, tra l'aggettivo e l'avverbio, tra numeri o generi nominali. Ad es.: "le mura dell'alta Roma "per le alte mura di Roma"; "parla chiaro" per "parla chiaramente"; "vado via domani" per "andrò via domani".


    ENDECASILLABO. Dal greco hendecasyllăbus = "undici (héndeka) sillabe (syllabé)". È il verso più armonioso e vario della poesia italiana, composto da undici sillabe metriche o posizioni. A parte l'ultimo (ch'è sempre sulla penultima sillaba), ha gli altri accenti in posizione libera, anche se i più ricorrenti cadono sulla sesta (ad es. in Leopardi: "Sempre caro mi fu' quest'ermo colle") oppure sulla quarta sillaba (ad es. in Dante: "Zefiro do'lce le novelle fronde"). Si distingue in endecasillabo "a maiore", se il primo emistichio è un settenario, e "a minore" se è un quinario. Un endecasillabo a maiore è il leopardiano "Vaghe stelle dell'Orsa, - io non credea", con sinalefe tra i due emistichi; un esempio a minore è ancora il leopardiano "Questa mia vita dolorosa e nuda". Vi sono però numerose varianti.


    ENDÌADI. Dal greco hén diá dyóin = "uno attraverso due". Figura retorica che consiste nell'utilizzo di una coppia di aggettivi o di sostantivi al posto di un sostantivo e un aggettivo o un sostantivo e un complemento. Ad es.: "notte e ruina" (Leopardi, La ginestra, v. 216), al posto di "tenebrosa rovina"; "Amaro e noia | la vita, altro mai nulla..." (Leopardi, A se stesso, v. 216) invece di "amara noia". Nel linguaggio comune sono endiadi le espressioni "fuoco e fiamme", "chiaro e tondo".


    ÈNFASI. Figura retorica che consiste nel mettere in particolare rilievo un termine o una frase. Ad es.: "Lui, lui sa quello che voglio dire!". Il Lausberg ha notato come, soprattutto per l'oratore e per l'attore, l'enfasi semantica si identifica con "un aumento di intensità della voce (e dei gesti)" nel momento in cui si vuole sottolineare una parola o un concetto.


    ENJAMBEMENT. Termine francese (dal verbo enjamber = "passare in campo altrui") con cui si indica la separazione metrica, tra la fine di un verso e l'inizio di quello successivo, di due elementi sintatticamente legati (sintagma). Ad es. in Leopardi: "Ma sedendo e mirando, interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi...".
    Qualcuno usa il termine "inarcatura" (ad es. Fubini) o "spezzatura" (ad es. Di Girolamo), ma il termine francese è quello più accettato.


    ENUMERAZIONE. Dal latino enumerāre = "enumerare, contare". Consiste nella rassegna rapida di eventi, oggetti, qualità, coordinate o per asindeto o per polisindeto. Ad es.: "e mi sovvien l'eterno, | e le morte stagioni, e la presente | e viva, e il suon di lei..." (Leopardi, L'infinito, vv. 12-14); "era la statua nella sonnolenza | del meriggio e la nuvola, e il falco alto levato" (Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, vv. 7-8).


    EPANADIPLOSI. Dal greco al greco epanadíplōsis = "raddoppiamento". Figura retorica consistente nel riprendere una parola usata all'inizio di una frase o di un verso alla fine della frase o del verso stesso. Ad es.: "Vede perfettamente ogni salute / chi mia donna tra le donne vede" (Dante).


    EPANÀFORA. Vedi anadiplosi.


    EPANALESSI. Dal greco epanàlepsis = "ripresa, ripetizione". Figura retorica che consiste nel ripetere una o più parole all'interno della stessa frase, sottolineando il fatto che le si sta ripetendo, al fine di mettere in rilievo il concetto espresso. Ad es. in Dante: "Ma passavan la selva tuttavia, / la selva, dico, di spiriti spessi".


    EPÈNTESI. Dal greco epénthesis = "inserimento". Fenomeno fonetico consistente nell'aggiunta di uno o più fonemi all'interno di una parola. Ad es. in Dante: "E vederai color che son contenti".


    EPÌFORA (o EPÌSTROFE). Dal greco epiphéro = "aggiungo". Sinonimo di epistrofe. Figura contraria all'anafora, consistente nella ripetizione di una parola o una frase alla fine di più versi o periodi, secondo lo schema /…x/…x/. Ad es. ne La pioggia nel pineto di D'Annunzio: "Più sordo, e più fioco / s'allenta, si spegne. / Solo una nota / ancor trema, si spegne, / risorge, trema, si spegne"; o in Pascoli: "Il bimbo dorme, e sogna i rami d'oro, / gli alberi d'oro, / le foreste d'oro".


    EPÌFRASI. Dal greco epíphrasis, formato da epí = "su, sopra" e phrásis = "parola, locuzione", nel senso di "parola aggiunta". Aggiunta, espansione, completamento di una frase già sintatticamente conclusa, al fine di amplificare o correggere ciò che è stato precedentemente detto. Ad es.: "Tu sei la mia gioia. Ed anche il mio dolore". O in Leopardi: "Io gli studi leggiadri | talor lasciando e le sudate carte" anziché "Io gli studi leggiadri e le sudate carte talor lasciando..." (A Silvia, vv. 15-16).


    EPIGRAMMA. Dal greco ἐπίγραμμα, derivato di ἐπιγράϕω = «scrivere sopra, è un breve componimento in versi, originariamente di carattere encomiastico o, più spesso, funerario. Si è poi rivolto alla celebrare il ricordo di una vita intera o di una singola impresa, per assumere infine, già fra gli antichi (Catullo, Marziale), il tono di arguzia ironica e talvolta caricaturale, di ispirazione morale o sociale o politica. Oggi viene inteso come come epigramma un componimento poetico di vario carattere. che si contraddistingue per la sua brevità ed efficacia.


    EPISINALEFE. Fenomeno metrico per il quale si ha la fusione (sinalefe) tra la vocale finale di un verso, solitamente sdrucciolo, con quella iniziale del verso successivo. Ad es. in Pascoli: "È l'alba, si chiudono i petali | un poco gualciti; si cova | dentro l'urna molle e segreta, | non so che felicità nuova" (Pascoli, Il gelsomino notturno).


    EPÌSTROFE. Vedi epìfora


    ESAMETRO. Metro della versificazione latina e greca (dal greco esa = "sei e metron = "misura, metro"), composto da sei piedi dattilici (_◡◡), di cui l'ultimo, detto "catalettico", è composto da due sole sillabe.
    Lo schema di base dell'esametro, considerando che ogni dattilo (il quinto solo in casi eccezionali) può essere sostituito da uno spondeo, è il seguente: _◡◡ _◡◡ _◡◡ _◡◡ _◡◡ _ _


    EPÌTESI. Vedi paragòge.


    ETEROMETRICO. Testo con versi di differente lunghezza, anche se di struttura regolare.


    EUFEMISMO. Figura retorica per la quale si sostituisce una parola o un'espressione ritenuta troppo cruda con un'altra parola o perifrasi che ne attenui la durezza. Ad es.: "non è più tra noi", "è andato in cielo", "è passato a miglior vita", per (non) dire "è morto". Essa è legata alle convenzioni socio-linguistiche e culturali che mettono al bando alcuni concetti e le rispettive espressioni.


    FENOMENI FONETICI. Detti anche figure grammaticali, comportano un'alterazione nella grafia delle parola e servono (mediante soppressione o aggiunzione di uno o più fonemi) ad aumentare o diminuire la struttura metrica di un verso. Oltre all'elisione, chè un fenomeno a sé, abbiamo per soppressione l'afèresi, la sìncope e l'apòcope, e per aggiunzione la pròtesi, l'epentesi e la paragòge (o epìtesi).


    FIGURA ETIMOLOGICA. Accostamento di due parole che hanno in comune l'origine etimologica. Ad es.: Esempio: "Ahi quanto a dir qual era è cosa dura | esta selva selvaggia e aspra e forte | che nel pensier rinnova la paura!" (Dante, Inferno, I, vv. 4-6).


    FIGURE METRICHE. Fenomeni sillabici, tipici della poesia, che non comportano alterazioni grafiche, ma solo una diversa modalità di lettura, ai fini del computo sillabico del verso. Sono la sineresi, la sinalefe, la dieresi e la dialefe.


    FIGURE RETORICHE. Particolari forme espressive della lingua, fondamentali in letteratura (e soprattutto in poesia), ma frequenti anche nella lingua comune. Vengono usate per dare maggiore incisività e una più profonda carica al senso complessivo del messaggio. Si distinguono tradizionalmente in figure di parola (o del significante) e figure di pensiero (o del significato).
    Fra le prime troviamo ad es. allitterazione, anafora, anastrofe, chiasmo, enjambement, iperbato.
    Fra le seconde iperbole, litote, metafora, metonimia, ossimoro, similitudine, sineddoche, sinestesia.


    FONOSIMBOLISMO. Termine che indica la facoltà del significante di suscitare sensazioni (visive, acustiche, ecc.) indipendentemente dal suo legame col significato e persino (a volte) dalle intenzioni dello scrittore. L'effetto fonosimbolico è dunque legato alla "semantizzazione del significante". Un esempio di fonosimbolismo sono le onomatopee pascoliane. Oppure l'allitterazione presente nel celebre verso dantesco "E caddi come corpo morto cade" (Inferno, V, v. 142), che riproduce il colpo sordo di un corpo che perde i sensi.


    FROTTOLA. Componimento poetico con struttura strofica irregolare e versi di misure differenti, ma con schema metrico regolare (in genere a rima baciata con struttura AA BB CC ecc., o AAA BBB CCC ecc. aaa bbb ccc ecc.). Il contenuto è vario e particolare, tendente al non-senso, in una successione di pensieri sconnessi, sentenze, proverbi.


    GIAMBO. Nella metrica classica, piede di ritmo ascendente formato da una sillaba breve e una lunga: ◡_. Nella metrica italiana si parla di ritmo giambico quando si alternano sillabe atone e sillabe toniche.


    HAPAX LEGOMENON. Significa, dal greco, "detto una volta sola". Parola o espressione che ricorre una sola volta in un'opera letteraria o nel corpus di un autore.


    HYSTERON PROTERON. Letteralmente "l'ultimo come primo". Si ha quando viene rovesciata la successione degli avvenimenti e quindi il termine finale di un'argomentazione impostata in senso cronologico viene posto in posizione iniziale. Ad es.: "Tu non avresti in tanto tratto e messo / nel foco il dito", dove viene invertito l'ordine comune dell'azione del mettere il dito nel fuoco e successivamente ritrarlo per l'eccessivo calore.


    IATO. Dal latino hiatus = "apertura". Incontro di due vocali contigue che appartengono a due sillabe diverse, e dunque si pronunciano separatamente. In linea di massima lo iato si verifica nell'incontro fra due vocali aspre (a, e, o) oppure fra una aspra e una vocale dolce (i, u) accentata.


    ICTUS. Vedi accento ritmico


    IMPARISILLABO. Verso con un numero dispari di sillabe, nella variante piana: in italiano il trisillabo, il quinario, il settenario, il novenario e l'endecasillabo.


    INNO. Tipo di composizione religiosa, legata alla musica e al canto. Presente già nelle letterature classiche, ebbe importanza fondamentale nella liturgia e quindi nel canto gregoriano. Dall'imitazione della sua struttura ebbero origine i componimenti strofici mediolatini e volgari. Il carattere solenne dell'inno ne fece un genere praticato fino all'Ottocento (celebri gli Inni sacri di Manzoni), non solo in ambito religioso, ma anche civile e patriottico (si pensi al famoso Inno di Mameli).


    INVERSIONE. Figura di costruzione che consiste nell'invertire l'ordine abituale delle parole o dei sintagmi di una frase. Ad es. in Leopardi: "Sempre caro mi fu quest'ermo colle..." (L'infinito, v. 1). Tali sono l'anastrofe e l'iperbato.


    IPÀLLAGE. Dal greco hypallagé, che significa "scambio, commutazione". Figura retorica consistente nello scambio del normale rapporto sintattico o semantico fra due parole. In pratica si attribuisce a una parola ciò che, nella stessa frase, andrebbe attribuito ad un'altra parola. Ad es. in Carducci: "il divino del pian silenzio verde" (Il bove), anziché "il divino silenzio del verde pian"; "verde" è riferito a "silenzio" e non a "pian", come dovrebbe. Oppure in Pascoli: "di foglie un cader fragile…" (Novembre, v.11), in cui l'aggettivo "fragile" è riferito al verbo anzichè al sostantivo "foglie".


    IPÈRBATO. Dal greco hyperbaìno = "traspongo" (hypér = "sopra", e báinō = "passo"). Figura retorica consistente nell'alterazione dell'ordine normale delle parole del discorso, per cui una parola o un inciso si interpongono tra due termini che sono strettamente uniti tra loro dal punto di vista sintattico. Ad es. in Foscolo: "questa | bella d'erbe famiglia e d'animali" (Dei Sepolcri).


    IPÈRBOLE. Dal greco hyperbàllo (= "lancio oltre"). Figura retorica consistente nell'esagerare (amplificandolo o riducendolo) l'espressione di un concetto. Ad es.: "È un secolo che non lo vedo"; "Scendo tra un minuto"; "Sono in un mare di guai"; "Mi piace da morire"; "Non ha un briciolo di cervello". A livello letterario: "Lo scudo in mezzo alla donzella colse: / ma parve urtasse un monte di metallo" (Ariosto). Dalla storia, il detto proverbiale di Carlo V: "Sui miei dominii non tramonta mai il sole".


    IPERMETRÌA. Eccedenza sillabica rispetto alla misura normale del componimento.


    IPOMETRÌA. Difetto di una o più sillabe rispetto alla misura normale del componimento.


    IPOTIPOSI. Dal greco hypotýposis = "abbozzo". Descrizione vivace e dettagliata di un avvenimento, di un personaggio, di un oggetto, in modo da suscitarne nel lettore l'immagine visiva. Ricordiamo ad es. la figura di Farinata degli Uberti delineata da Dante: "Vedi là Farinata che s'è dritto: | da la cintola in sù tutto 'l vedrai..." (Inferno, X, vv. 32-33), o la rappresentazione nei Sepolcri foscoliani dei fantasmi eroici della battaglia di Maratona, che rivivono agli occhi dei naviganti: "si spandea lungo nei campi | di falangi un tumulto e un suon di tube, | e un incalzar di cavalli accorrenti, | scalpitanti su gli elmi a' moribondi | e pianto e inni e delle parche il canto...".


    ISOSILLABISMO. Principio metrico per il quale l'equivalenza di due versi è stabilita in base al numero delle sillabe, che deve essere uguale. In italiano i versi sono isosillabici se hanno lo stesso numero di posizioni prima dell'ultima tonica.


    LASSA. Gruppo di versi di numero indeterminato (a differenza della strofa), tipico della poesia epica medievale; i versi della lassa sono caratterizzati dall’omogeneità della misura (in generale, si tratta di ottonari, decasillabi o alessandrini) e dalla presenza della stessa rima o assonanza. La lassa è tipica delle chansons de geste, come la celebre Chanson de Roland (metà XI secolo), e si presenta come un metro legato all’oralità e adatto alle necessità narrative dell’epica cavalleresca. In ambito italiano, la lassa trova diffusione soprattutto nei ritmi di tematica religiosa e nel Ritmo laurenziano (fine XII - inizio XIII secolo).


    LAUDA. Testo poetico medievale (dal latino laus, laudis = "lode, elogio2. In particolare le laudes sono le "preghiere recitate all'alba" di argomento religioso, accompagnate dalla musica, che si diffondono a metà del XIII secolo a partire dagli ambienti delle confraternite religiose.
    Il metro si avvicina a quello della ballata e del sirventese e, nella forma della "lauda drammatica" (tipica per la narrazione di vite di santi o di episodi evangelici), si caratterizza per il ricorso all'ottava.
    Tra i suoi principali esponenti troviamo San Francesco d’Assisi col suo Cantico delle creature e Jacopone da Todi con testi come Donna de Paradiso. In tempi più recenti la "lauda" è stata ripresa da Gabriele D'Annunzio nel progetto poetico complessivo (ma non portato a termine) delle Laudi. Qui, nel volume intitolato Alcyone, si trova il testo che più si avvicina al modello sacro medievale: La sera fiesolana, ispirata proprio all'esempio francescano del Cantico.


    LITOTE. Dal greco litòtes = "attenuazione". Figura retorica consistente nell'esprimere un'idea mediante la negazione del suo contrario, in modo da attenuarla formalmente. Frequente anche nell'uso comune: "Non è uno sciocco" (per "è intelligente"); "non lo nego" (per "lo ammetto"). In ambito letterario, famosissima la litote manzoniana: "Don Abbondio non era nato con un cuor di leone".


    MADRIGALE. Componimento poetico di etimo incerto ma di origine italiana, d'argomento amoroso e di ispirazione bucolica, basato sul modello metrico della ballata e dello strambotto. Fin da principio fu un metro della poesia d'arte, e perciò venne accolto tra i metri canonici del Canzoniere petrarchesco.
    In origine lo schema prevedeva due strofe di tre versi ciascuna, variamente rimati, chiuse da una coppia di versi a rima baciata. Dal 16° secolo il madrigale si staccò dal canto e mutò profondamente. Oltre all'endecasillabo venne ammesso il settenario e si affermò una grande varietà metrica. Anche l'ispirazione si allarga e abbraccia la politica, la morale, la filosofia. Nel 18° secolo viene usato soprattutto per esprimere un complimento galante, e come tale ebbe fortuna presso i poeti dell'Arcadia. Successivamente, nella sua forma antica, torna in uso presso poeti di gusto arcaizzante del 19° secolo, come Carducci e D'Annunzio.


    MARTELLIANO. Vedi alessandrino.


    METAFORA. Dal greco metaphéro, composto da metà (= "oltre, al di là") e phéro (= "porto"). Figura retorica consistente nel trasferire una parola dall'oggetto a cui normalmente la si riferisce ad un altro oggetto, mediante un paragone sottinteso. Così, dicendo: "Tizio è un coniglio", intendiamo dire che è pavido come un coniglio. Dicendo: "L'infanzia è l'alba della vita", intendiamo dire che è l'inizio della vita, come l'alba lo è del giorno. Possiamo quindi dire che la metafora è una similitudine abbreviata, cioè sottratta dell'avverbio di paragone.
    Occorre sottolineare che nei testi letterari di grande valore la pretesa di trovare un'espressione letterale corrispondente a quella metaforica è illusoria. Ad es., quando Leopardi scrive nel Passero solitario: "Primavera d'intorno / brilla nell'aria...", ci dà un'immagine insostituibile. Il verbo "brillare", che il poeta usa appunto in senso metaforico, non ha nessun possibile sostituto letterale perché la figura non è limitata al predicato, ma si proietta sul suo soggetto. È dunque la primavera ad essere vista metaforicamente. Perciò questa metafora leopardiana si può parafrasare, si può spiegare e commentare, ma non si può assolutamente convertire in un'espressione propria, cioè non figurata.
    Oltre che con la metafora, uno spostamento di significato si attua anche con la metonimia e la sinèddoche.


    METATESI. Figura grammaticale che consiste nell'inversione di due suoni vicini senza che mutiil significato della parola: ad es. "drento" per "dentro".


    METONIMIA. Dal greco metonymìa = "scambio di nome". Figura retorica consistente, come la metafora, nella possibilità di sostituire una parola con un'altra; ma la sostituzione metonimica avviene tra parole appartenenti allo stesso campo semantico (a differenza della sostituzione metaforica, che è più libera e tiene conto di somiglianze anche vaghe), e si basa fondamentalmente su un rapporto di contiguità logica fra le parole scambiate.
    Si hanno vari casi di sostituzioni metonimiche, tra cui le più frequenti sono:
    1. il contenente per il contenuto ("Bevo un bicchiere"; cioè il suo contenuto);
    2. la causa per l'effetto ("Ha una bella mano"; cioè una bella scrittura);
    3. l'effetto per la causa ("Una valle di lacrime"; cioè "un luogo di sofferenza"):
    4. l'astratto per il concreto ("Le prepotenze della nobiltà"; cioè dei nobili);
    5. il concreto per l'astratto ("È un uomo di buon cuore"; cioè di buoni sentimenti);
    6. l'autore per l'opera ("Oggi leggiamo Montale"; cioè una sua poesia);
    7. la regione o la città per gli abitanti ("La rivolta di Parigi"; cioè dei parigini);
    8. la località di produzione per il prodotto ("Ho bevuto un buon Chianti").


    METRICA. L'insieme delle regole utili per la versificazione, cioè per la composizione dei versi. Questo termine indica dunque lo studio dei fenomeni che riguardano le strutture formali specifiche del verso nella poesia (misura dei versi, figure metriche, cesura, ritmo, rime, strofe, ecc.).


    METRO. Misura di un dato verso in base alle sillabe metriche o posizioni. Non va confuso col ritmo, in quanto versi metricamente uguali possono differenziarsi ritmicamente. La sillaba costituisce infatti l'unità metrica, mentre il ritmo è dato dalla disposizione degli accenti.


    MONORIMA. Si dice della strofa in cui è presente una sola rima, indipendendentemente dalla lunghezza dei versi.


    MOTTETTO. Dal fracese mot = "parola, testo". In campo musicale, breve composizione polifonica, vocale o anche strumentale, consistente nell'assegnare alla seconda voce (duplum) un testo differente. In tale ambito, il mottetto ha un ampio sviluppo dal XIII secolo fino a Johann Sebastian Bach (1685-1750). In ambito letterario, nella lirica medievale italiana (ad es. in Cavalcanti) il termine è stato utilizzato per componimenti poetici piuttosto diversi tra loro, ma in genere di tono arguto e carattere popolare. Privo di tradizione, il termine è stato recuperato nel Novecento da Eugenio Montale (1896-1981), come titolo di una sezione della raccolta Le occasioni composta da alcune brevi poesie di forma metrica varia e spesso divise in due strofe: ad es. Non recidere, forbice, quel volto.


    NONA RIMA. In pratica è un'ottava con l'aggiunta di un verso che rima con i primi tre versi pari. Il suo schema è ABABABCCB. Il poema intitolato L'intelligenza, già attribuito a Dino Compagni, è composto con questo metro.


    NOVENARIO. Verso di nove posizioni, quindi con l'ultimo accento sull'ottava, e con altri accenti fissi. Il più usato è il novenario a ritmo anapestico-dattilico, che ha accenti su seconda, quinta e ottava sillaba. Ad es. in Pascoli: "tremàva un sospìro / di vènto (L'assiuolo, v. 18).


    ODE. Dal greco odé = "canto". Componimento di stile elevato e forma metrica variabile (in genere strofe monometre o polimetre che, di solito, contano non più di 6-7 versi e ripetono lo stesso schema), di argomento prevalentemente lirico-amoroso o civile-morale. Di elaborazione greco-latina (Alceo, Saffo, Anacreonte, Pindaro... Catullo e Orazio), essa cadde a lungo in disuso per essere recuperata nel Rinascimento italiano e francese, alla ricerca di possibilità espressive alternative alla canzone petrarchesca. Pietro Bembo e Bernardo Tasso imitarono Orazio, seguiti, fra gli altri, da Gabriello Chiabrera, Giovan Battista Marino, Fulvio Testi. La soluzione scelta fu di adoperare strofe brevi, da 4 a 6 versi, i quali erano, tuttavia, gli stessi della canzone petrarchesca: settenario ed endecasillabo. Più tardi ancora, ma ad imitazione di Anacreonte, composero odi Giuseppe Parini, Vincenzo Monti, Ippolito Pindemonte e Ugo Foscolo. Minore successo ebbe l'imitazione dell'ode pindarica. I diversi tentativi furono ripresi con maggiore ampiezza nell'Ottocento da Giosuè Carducci (celeberrima su tutte l'ode anacreontica San Martino), sulle cui orme si posero Giovanni Pascoli e Gabriele D'Annunzio.
    Nel resto d'Europa, dopo un periodo in cui vennero imitate le soluzioni italiane, l'ode, con diverse forme, ebbe successo, fra gli altri con Samuel Taylor Coleridge, Percy Bysshe Shelley e John Keats in Inghilterra, Friedrich Gottlieb Klopstock e Friedrich Hölderlin in Germania, Alphonse de Lamartine, Victor Hugo, Alfred de Musset in Francia, Aleksandr Sergeevič Puškin, Michail Jur'evič Lermontov in Russia.


    ONOMATOPEA. Dal greco onomatopoiìa = "formazione di parole". Figura retorica consistente nella riproduzione linguistica di suoni o rumori esistenti in natura. Ad es. in Pascoli: "un breve gre-gre di ranelle"; verso in cui si rileva anche un'allitterazione in /r/. Fenomeno diffuso anche nella lingua quotidiana: "tic-tac", "din-don".


    OSSIMORO. Dal greco oxýmoron, composto da oxýs (= "acuto") e moròs (= "ottuso, stolto"). Figura retorica consistente nell'accostamento di due termini i cui significati sembrano escludersi a vicenda. Ad es. in Giusti: "Sentia nel canto la dolcezza amara". O in Rebora: "Sinistro rumor di silenzio".


    OTTAVA. Strofa composta da otto endecasillabi. Nell'ottava toscana i primi sei versi sono a rima alternata seguiti da un distico a rima baciata, secondo lo schema ABABABCC. In quella siciliana sono tutti a rime alternate ABABABAB. Si tratta della strofa tipica dell'epopea italiana da Boccaccio a Poliziano, Oulci, Boiardo, Ariosto, Tasso, Marino, Tassoni, ecc.


    OTTONARIO. Verso parisillabo, la cui ultima sillaba tonica è la settima: nella variante piana, quindi, è costituito di otto posizioni. L'accento secondario cade più frequentemente sulla terza sillaba, ma si danno anche casi in cui cade sulla prima e sulla quarta. Praticamente inutilizzato nella poesia illustre a partire da Dante e Petrarca, l'ottonario fu considerato tipico della poesia popolare e venne Come verso illustre recuperato solo nell'Ottocento (ad esempio da Carducci e Pascoli), quando divenne uno dei versi fondamentali della ballata.


    PALINODIA. Dal greco, significa "ritorno". Termine che indica la ritrattazione di un'opinione emessa in precedenza o di un comportamento precedente, che ora si rinnegano.


    PARAGOGE (o EPÌTESI). Dal greco paragogé, composto da parà = "accanto" e àgein = "condurre". Detta anche epìtesi, è un fenomeno fonetico consistente nell'aggiunta di uno o più fonemi alla fine di una parola. Ad es. "cittade" (città), "virtude" (virtù), "bontade" (bontà).


    PARISÌLLABO. Verso con un numero pari di sillabe, come il senario, l'ottonario, il decasillabo.


    PARONOMÀSIA (o PARONOMASÌA). Dal greco paronomasìa, composto da parà = "accanto" e ònoma = "nome". Figura morfologica consistente nell'avvicinare in un breve spazio sintattico due o più parole fonicamente simili ma dal significato diverso. Ad es. in Dante: "ch'i' fui per ritornar più volte volto" (Inferno, canto I, v. 36); oppure in Montale: "Trema un ricordo nel ricolmo secchio" (Cigola la carrucola nel pozzo, v. 3). Bellissima la paronomasia leopardiana (che è anche un anagramma) "Silvia... salivi".


    PASTORELLA. Componimento poetico in cui viene inscenato un dialogo tra un cavaliere ed una pastora, in cui generalmente il cavaliere richiede l'amore, che può essere accordato o negato. Il genere è di origine provenzale, ma fu praticato anche in Italia, per esempio da Cavalcanti e da Sacchetti.


    PERIFRASI. Dal greco perìphrasis, composto da perì = "intorno" e phràzo = "parlo". Figura retorica consistente nel sostituire un termine specifico con un "giro di parole". Può quindi essere considerata come un "sinonimo a più termini". Ad es. in Dante: "Va per lo regno della morta gente" (oltretomba). Oppure, nel linguaggio comune: "un male incurabile" (tumore).


    PERSONIFICAZIONE. Figura retorica consistente nel rappresentare un concetto o un oggetto come se fosse un essere animato. Ad es. in Leopardi, che si rivolge così alla luna: "Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, | silenzïosa luna?" (Canto notturno, vv. 1-2); o in Pascoli: "singhiozza monotono un rivo" (La mia sera, v. 12) La tendenza alla personificazione, spesso inconscia, è rintracciabile anche nel linguaggio comune. Ad es.: "Quest'inverno il sole non ha proprio voglia di farsi vedere".


    PIEDE. Nella metrica classica, greca e latina (che è una metrica quantitativa), è l'unità di misura del verso. In pratica il piede è un gruppo di sillabe brevi e lunghe riunite sotto un ictus (cioè un accento ritmico). Nel piede si distinguono l'arsi, che è la parte forte, quella cioè segnata dall'ictus (che per convenzione si segna con un accento acuto), e la tesi, che è la parte debole. L'unità di misura del piede è la breve (◡); la lunga (−) è generalmente considerata di durata doppia della breve (− = ◡◡).
    Sono ascendenti i piedi che, cominciando dalla tesi, vanno rinforzandosi con movimento ascendente verso l'arsi: come l'anapesto (◡◡−). Sono invece discendenti i piedi che cominciano dall'arsi, decrescendo progressivamente verso la tesi: come il dàttilo (−◡◡).
    Anche nella metrica italiana si usa il termine piede e alcuni tipi di piede (giambo, trocheo, anapesto, dattilo) per indicare, però, non la successione di lunghe e brevi (che non esiste in tali lingue) ma la successione di sillabe accentate e sillabe non accentate. Per esempio un piede (o un ritmo) anapestico è dato da una parola che presenta due sillabe atone seguite da una sillaba tonica, come nel celeberrimo attacco leopardiano: "Sempre caro mi fu quest'ermo colle..." (L'infinito, v. 1), dove le prime due sillabe sono atone e la terza è tonica: "Sem-pre cà...".


    PLEONASMO. Parola non essenziale al discorso, ma anzi ridondante e superflua. Ad es., nel famigerato "a me mi piace", il "mi" è pleonastico.


    POLIMETRO. Testo poetico composto di versi di differente lunghezza.


    POLIPTOTO. Figura retorica consistente nel riprendere una stessa parola in frasi successive, cambiandone la flessione. Ad es. il dantesco "cred'io ch'ei credette ch'io credesse" (Inferno, XIII, v. 25).


    POLISINDETO. Dal greco polýs = "molto" e syndéō = "legare insieme". Procedimento sintattico consistente nel coordinare fra loro le parole di una proposizione o le proposizioni di un discorso facendo ampio uso di congiunzioni, per evidenziare in tal modo particolari valori espressivi e creare un ritmo concitato e incalzante. Ad es.: "Per montagna e per valle, / Per sassi acuti, e alta rena, e fratte, / Al vento, alla tempesta, e quando avvampa / L’ora, e quando poi gela (Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia).


    POSIZIONE. Espressione equivalente a "sillaba metrica", purché si tenga ben presente che essa non coincide col concetto di sillaba grammaticale. Infatti, per effetto delle figure metriche e delle leggi ritmiche (vedi ritmo), una posizione può essere occupata da più sillabe o da nessuna, e una sillaba grammaticale può dar luogo a due posizioni. Nella metrica italiana l'ultima posizione si identifica con l'ultima sillaba tonica: così l'ultima posizione dell'endecasillabo è costituita dalla decima sillaba (necessariamente tonica). Dopo questa posizione, in qualunque specie di verso, si conta una sillaba atona, anche se questa fisicamente non ci fosse (parola tronca) o ve ne fossero più di una (parola sdrucciola o bisdrucciola).


    PRETERIZIONE. Figura per la quale si asserisce di non voler parlare di un argomento, mentre poi l'asserzione costituisce di fatto il pretesto per parlarne. Spesso è introdotta da locuzioni come "Per non parlare…", "Taccio di…", "Non ricorderò…". Ad es.: "Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l'erbe sanguigne / di lor vene, ove 'l nostro ferro mise." (Petrarca, Italia mia, benché 'l parlar sia indarno, vv. 49-51). Detta anche paralessi.


    PROSOPOPEA. Dal greco prosōpopoiêin = "personificare", composto di prósōpon ="viso, volto" e poiêin = "fare, produrre", quindi "fare persona, personificare". È dunque sinonimo di personificazione.


    PROTESI. Dal greco pròthesis = "messo davanti". Detta anche pròstesi, è un fenomeno fonetico consistente nell'aggiunta di uno o più fonemi all'inizio di una parola, generalmente per motivi eufonici (cioè di suono piacevole). Ad es. in Dante: "non ispero" (per "non spero"). Oppure "ignudo" per "nudo".


    QUADRISILLABO (o QUATERNARIO). Verso con accento principale sulla terza sillaba e uno, facoltativo, sulla prima.


    QUARTINA. Strofa di quattro versi, fra loro variamente rimanti, che costituisce un'unità di uno schema metrico più complesso, ad esempio il sonetto (formato da due quartine e due terzine).


    QUINARIO. Verso giambico con l'ultimo accento sulla quarta sillaba e un accento secondario sulla seconda.


    RETICENZA. Vedi aposiopesi.


    RIGETTO (o REJET). È la parte di sintagma che resta interrotta alla fine di un verso e viene continuata in quello seguente a causa dell'enjambement. Ad es. in Leopardi: "Ma sedendo e mirando, interminati | spazi di là da quella, e sovrumani | silenzi, e profondissima quiete..." (L'infinito, vv. 4-6) "interminati" e "sovrumani" sono due rigetti.


    RIMA. È l'identità di fonemi tra due o più parole, a partire dall'ultima vocale tonica (es.: "fiore / amore"). È detta rima interna o rima al mezzo quando cade tra una parola finale di verso e una parola interna a un altro verso. Per secoli è stata un punto di riferimento fondamentale per la stessa organizzazione delle forme strofiche (vedi strofa), mentre oggi ha un'importanza relativa. In base al tipo di parola finale del verso, si distingue in piana, tronca, sdrucciola, bisdrucciola (quest'ultima però è molto rara).
    La rima si presenta in varie forme, tra le quali ricordiamo:
    1. la rima baciata, quando unisce due versi consecutivi secondo lo schema AA;
    2. la rima alternata, quando appunto le rime si alternano, secondo lo schema ABAB;
    3. la rima incrociata, quando si presenta con un ordine speculare, secondo lo schema ABBA;
    4. la rima incatenata, tipica della terzina dantesca, secondo lo schema ABA.BCB.CDC.;
    5. la rima invertita, quando le rime di una strofa tornano uguali ma in ordine inverso, secondo lo schema ABC.CBA;
    6. la rima replicata o ripetuta, quando le rime di una strofa tornano uguali e nello stesso ordine in una strofa successiva, secondo lo schema ABC.ABC.


    RIPRESA. Vedi ballata.


    RISPETTO. Forma poetica italiana simile allo strambotto (e spesso scambiata anche terminologicamente con esso), composta di otto endecasillabi, con schema metrico uguale a quello dell'ottava toscana o siciliana: ABABABCC o ABABABAB.


    RITMO. È il movimento creato dall'andamento degli accenti all'interno del verso. Questo andamento può rendere ritmicamente differenti versi metricamente uguali. Ad esempio un endecasillab può avere gli accenti sulle sillabe 1-4-6-8-10, oppure 2-4-6-8-10, o ancora 3-6-8-10, ecc.


    RITORNELLO. Vedi ballata.


    SCHEMA METRICO. L'avvicendamento delle rime, indicato mediante lettere alfabetiche, in un componimento poetico (ad esempio il sonetto).


    SENARIO. Verso parisillabo, la cui ultima sillaba tonica è la quinta: nella variante piana è quindi costituito di sei sillabe. Nella forma normale ha un accento secondario sulla seconda sillaba. Ad es. in Giacomo da Lentini: "Dal core mi vene..." (Dal core mi vene, v. 1); o in Pascoli: "Fantasma tu giungi..." (Canzone d'aprile, v. 1).


    SESTA RIMA. Strofa di sei endecasillabi con lo schema simile a quello dell'ottava ma con un distico a rima alternata in meno: ABABCC.


    SETTENARIO. Verso di sette sillabe metriche o posizioni, con accento fisso sulla sesta posizione e uno o due accenti mobili sulle prime quattro. Dopo l'endecasillabo è il verso più importante della nostra tradizione; e infatti spesso all'endecasillabo si alterna, come nella canzone leopardiana A Silvia.
    Raddoppiato, forma il verso alessandrino, o settenario doppio


    SETTENARIO DOPPIO. Vedi alessandrino.


    SILLABA METRICA. Vedi posizione.


    SIMILITUDINE. Figura retorica fondamentale, da cui tradizionalmente deriva per abbreviazione la metafora. Consiste nell'esprimere un'idea mediante il suo accostamento a un'altra idea che abbia con la prima un rapporto di somiglianza esplicitamente descritto. Ad es. in Pascoli: "quando partisti, come son rimasta! / come l'aratro in mezzo alla maggese".


    SINAFIA. Dal greco sinàfeia = "congiunzione, unione". Fenomeno metrico per cui la sillaba finale di un verso sdrucciolo viene "ceduto" al verso successivo, senza che vi sia sinalefe fra i due versi. Si leggano ad esempi i seguenti versi, tratti da La mia sera di Giovanni Pascoli: "È quella infinita tempesta / finita in un rivo canoro. / Dei fulmini fragili restano / cirri di porpora e d'oro". Si tratta di una quartina di novenari a rima alternata, perché, appunto, il terzo verso per rimare con il secondo deve cedere la sillaba finale (-no) al verso successivo, che senza la sillaba del verso precedente sarebbe risultato ipometro per via della sinalefe obbligatoria fra "porpora" ed "e").


    SINALEFE. Dal greco synaléiphein = "rendere unito". Figura metrica consistente nella fusione in una posizione della vocale finale di una parola con la vocale iniziale della parola successiva, all'interno dello stesso verso. Ad es. in Leopardi: "dolce-e chiara-è la notte-e senza vento".


    SINCOPE. Fenomeno fonetico consistente nelloa soppressione di uno o più fonemi in corpo di parola. Ad es. in Petrarca: "di me medes(i)mo meco mi vergogno"; oppure in Leopardi: "e s'affretta, e s'adop(e)ra / di fornir l'op(e)ra”.


    SINEDDOCHE. Figura retorica affine alla metonimia, dalla quale si distingue perché il rapporto fra il termine impiegato e quello sostituito non è di tipo qualitativo (logico) ma quantitativo. Si ha dunque sinèddoche quando si usa:
    1. il tutto per la parte (ad es.: "scarpe di vitello" per "pelle di vitello");
    2. la parte per il tutto (ad es.: "son rimasti senza tetto" per "senza casa").


    SINERESI. Figura metrica consistente nella fusione di due vocali grammaticalmente distinte (cioè in iato) in corpo di parola. Ad es. in Leopardi: "ed erra l'armonia per questa valle", dove -ia di "armonia" è grammaticalmente uno iato e andrebbe pertanto distinto, ma rientra nella stessa posizione. La sinèresi è di solito proibita in due casi: 1) alla fine del verso; 2) quando una vocale aspra (a, e, o) è seguita da una qualunque vocale accentata (vedi dieresi).


    SINESTESIA. Dal greco synàisthesis = "percezione simultanea" (syn = "insieme", e aisthánomai ="percepisco").. Figura retorica consistente nell'accostamento di due termini relativi a sfere sensoriali diverse. Ad es. in Dante: "I' venni in luogo d'ogni luce muto" (dove "luce" riguarda la vista, e "muto" l'udito); oppure in Quasimodo: "... all'urlo nero / della madre" (dove "urlo" riguarda l'udito, e "nero" la vista).


    SINTAGMA. Dal greco syn = "insieme" e tássō = "ordino". Termine della linguistica che indica la combinazione di due o più elementi sintatticamente uniti. Il termine risulta sempre accompagnato da un qualificativo che chiarisce la sua funzione grammaticale: sintagma nominale, sintagma verbale, sintagma aggettivale. ecc. Ad es., nella frase "Paolo vive a Roma", "Paolo" è un sintagma nominale, "vive" è un sintagma verbale, "a Roma" un sintagma preposizionale. Così come è stato introdotto dalla linguistica di Ferdinand De Saussure (1857-1913), il sintagma costituisce dunque un'unità intermedia tra la parola e la frase.
    Il concetto di sintagma è utile per riconoscere, in poesia, l'enjembement.


    SIRVENTESE (o SERVENTESE). Componimento poetico di origine provenzale, originariamente dedicato dal sirven (in provenzale antico, "servente") al suo signore per celebrarne le gesta.
    Nella tradizione italiana, il sirventese conobbe forme differenti, tutte però diverse dalla canzone, manifestando una continuità solo tematica con quello provenzale. Vanno ricordati: il s. duato, serie di distici monorimi; il s. incatenato, costituito da strofe di 3 versi, con rima incatenata ogni due terzine (ABA BCB DED EFE); il s. alternato, formato da strofe tetrastiche a rima alternata (ABAB CDCD); il s. caudato, in cui ciascuna strofa è costituita da un gruppo di versi monorimi (per lo più 3) che costituiscono la copula, e da un verso più breve, detto coda, in rima con i versi lunghi successivi (AAAb BBBc).e spesso un andamento narrativo. Tra i s. italiani, il S. dei Lambertazzi e dei Geremei, composto poco dopo il 1280, su un episodio della lotta comunale di Faenza; quelli di Guittone d’Arezzo; il Cantare dei cantari (fine 14° sec.).


    SISTOLE. Dal greco systolé = "contrazione". Spostamento dell'accento di una parola, verso sinistra rispetto alla sua sede naturale, di solito per esigenze ritmiche (vedi ritmo). Ad es. in Dante: "la notte ch'i' passai con tanta pièta". Il fenomeno contrario si chiama diàstole.


    SONETTO. Forma poetica antichissima, e forse la più usata nella poesia italiana tradizionale, a partire dalla "scuola siciliana". Si compone di due quartine (con schema metrico ABAB ABAB oppure ABBA ABBA) e due terzine (con vari schemi di rime: CDE CDE, CDE EDC, CDC CDC, CDE DEC, ecc.).


    STANZA. Vedi ballata e canzone.


    STORNELLO. Breve componimento lirico di ispirazione popolareggiante. In genere è composto di due o tre versi. La forma più comune ha un quinario o un settenario in apertura (spesso contenente l'invocazione ad un fiore), seguito da due endecasillabi, che rimano tra loro e si trovano in consonanza con il verso di apertura. Risale al XVII secolo, ma fu praticato soprattutto nell'Ottocento. Ad es.: "Fiorin, fiorino, / di voi bellina innamorato sono, / la vita vi darei per un bacino".


    STRAMBOTTO. Breve componimento monostrofico (di solito di 6 o 8 versi) in endecasillabi, d'intonazione popolare e di contenuto in prevalenza amoroso (ma anche satirico), sviluppatosi tra il 14° e il 15° secolo in Sicilia e in Toscana. Si presenta sia come struttura a sé stante sia in serie continuate. Metricamente è strutturato secondo due schemi principali, entrambi di otto (o sei) versi ed entrambi endecasillabi, quello dell'ottava toscana (ABABABCC) e quello dell'ottava siciliana (ABABABAB), ma si può incontrare anche lo schema ABABCCDD. Nel Quattrocento ne composero, fra gli altri, il Poliziano e Lorenzo il Magnifico. In seguito decadde, per essere recuperato nel secondo Ottocento da poeti come Carducci e Pascoli.


    STROFA. Raggruppamento di versi caratterizzato dal tipo di versi usati, dal numero dei versi e dalla disposizione delle rime.
    In generale si distinguono strofe monometre (cioè formate da versi di uguale lunghezza) e strofe polimetre (cioè formate da versi di lunghezza disuguale).
    Quanto al numero dei versi impiegati e alla disposizione delle rime, le strofe più comuni sono:
    1. il distico (schema AA)
    2. la terzina (schema ABA.BCB.CDC)
    3. la quartina (schema ABAB oppure ABBA)
    4. la sestina (schema ABABCC)
    5. l'ottava (schema ABABABCC)
    6. la nona rima (ABABABCCB).
    I poeti contemporanei tuttavia, in coincidenza con l'impiego del verso libero, usano solitamente strofe senza alcuno schema fisso di versi o di rime.


    TERNARIO. Verso di tre sillabe metriche o posizioni (detto anche "trisillabo"), solitamente combinato con altri versi più lunghi. Da solo e in serie è invece usato raramente.


    TERZA RIMA. Metro inventato da Dante per la Commedia, costituito da una serie di terzine di endecasillabi legate fra loro da uno schema di rime ABA BCB CDC ecc., detta "terzina incatenata" perché ogni terzina è legata alla successiva dalla presenza di una rima comune.


    TERZINA. Strofa di tre versi, costituisce uno degli schemi metrici fondamentali della poesia italiana (vedi sonetto).


    TESI. Nella metrica classica, è la sillaba del piede in posizione debole, mentre la sillaba su cui la modulazione si intensifica si chiama arsi. Nella metrica neoromanza, e quindi anche italiana è la sillaba in tesi è indicata convenzionalmente col simbolo -, mentre l'arsi è indicata col segno +.


    TMESI. Figura morfologica consistente nella divisione di una parola in due parti, poste rispettivamente alla fine di un verso e all'inizio del successivo. È dunque una specie di enjambment esagerato, se così si può dire. Ad es. in Gozzano: "Sogghigna un po'. Ricolloca sul piano- / forte il ritratto..." (In casa del sopravvissuto).


    TRISILLABO. Verso con unico accento sulla seconda sillaba. Solitamente entra in combinazione con altri versi.


    VERSI LIBERI. Con questa espressione si indica generalmente una successione di versi non riconducibili a misure tradizionali, com'è per gran parte della poesia contemporanea. Tuttavia la stessa espressione è valida anche per un insieme di versi che metricamente sono tradizionali ma non ubbidiscono a schemi strofici o a concatenazioni di rime tradizionali. Per il primo caso possiamo citare, tra i numerosissimi esempi, I fiumi di Ungaretti; per il secondo, La pioggia nel pineto di D'Annunzio.


    VERSI SCIOLTI. Si dicono sciolti i versi non legati da rima, anche se metricamente tradizionali. L'esempio più celebre è costituito dai Sepolcrifoscoliani.


    VERSO. Sequenza (cioè successione ordinata) di parole, e quindi di sillabe, caratterizzate da un ritmo ben definito. Il computo sillabico è però regolato dalle figure metriche, per cui la lunghezza dei singoli versi può presentare oppure no coincidenza tra sillabe grammaticali e posizioni.
    In base al tipo di parola finale del verso si distinguono:
    1. versi piani (se terminano con parola accentata sulla penultima sillaba);
    2. versi tronchi (se terminano con parola accentata sull'ultima sillaba);
    3. versi sdruccioli (se terminano con parola accentata sulla terz'ultima sillaba);
    4. versi bisdruccioli (se terminano con parola accentata sulla quart'ultima sillaba).
    In base al numero di posizioni presenti si distinguono invece in: bisillabo, ternario, quaternario, quinario, senario, settenario, ottonario, novenario, decasillabo, endecasillabo; e inoltre versi doppi (solitamente quinari, senari, settenari o ottonari.


    ZEUGMA. Figura grammaticale consistente nel far dipendere da un solo verbo più termini o espressioni che richiederebbero ciascuno un verbo proprio. Ad es. in Dante: "parlare e lagrimar vedrai insieme" (dove "vedrai" si adatta in realtà soltanto a "lagrimar"); oppure in Leopardi: "Porgea gli orecchi al suon della tua voce / ed alla man veloce / che percorrea la faticosa tela" (in cui ovviamente la "man veloce" non può produrre sulla tela un gran frastuono).